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Tensioni con il Colle e col Pd. Respinta un'offerta di Letta
"Sono una persona seria, questi consigli non li accetto"
L'ira fredda del Professore
"Non lascio, voglio la conta"
ROMA - "Io sono una persona seria. Questi consigli non li accetto". Il suo ufficio oramai è un bunker. Le riunioni con i ministri sembrano dei gabinetti di guerra. Ogni passo è misurato come in una tattica bellica. E già, perché Romano Prodi si sente in battaglia. Stretto tra la tenaglia del suo principale alleato e quella del Quirinale.
Che da due giorni gli ripetono sempre lo stesso suggerimento: "dimettiti subito, senza aspettare il voto del Senato". Anche ieri quel pressing è continuato per l'intera giornata. E la risposta del Professore si è fatta via via più irritata. Soprattutto dopo la fiducia incassata alla Camera e l'astensione dell'Udeur mastelliana.
Del resto, gli obiettivi del Professore e quelli del Pd non sono più convergenti. Così come la strada che vorrebbe imboccare Giorgio Napolitano. Il governo istituzionale è l'orizzonte che indica Walter Veltroni. E anche verso quella sponda si muove il capo dello Stato. Ma il premier non ci sta. Vuole giocarsi fino in fondo tutte le chance pure a Palazzo Madama. E quasi con sdegno rigetta l'offerta formulatagli ieri mattina da Gianni Letta, il plenipotenziario di Silvio Berlusconi: "Rimani fino a giugno e nel frattempo si fa una legge elettorale nuova". I due hanno passeggiato per una decina di minuti nello stretto corridoio che separa l'aula dal Transatlantico della Camera. L'ambasciatore berlusconiano ha parlato di un "governo di tregua". Ma la risposta prodiana è stata inequivocabile: "No". Subito dopo il premier si è rimesso al telefono per contattare tutti i dissidenti del centrosinistra.
Fisichella, Dini, Mastella. Così, la tabellina di Palazzo Chigi, nella notte di ieri, non presentava più il segno negativo. Sorpresa: Fisichella e Lambertow adesso sono pronti a non partecipare al voto e l'Udeur apre un piccolo spiraglio. "Voglio rispettare il mandato degli elettori", ha ripetuto ieri pomeriggio Prodi ad un gruppo di ministri. Soprattutto vive come un ricatto la posizione del Partito Democratico che gli sussurra quanto diventerebbe stretto il sentiero per un esecutivo tecnico o istituzionale se riceverà la sfiducia esplicita da parte dei senatori. "Hanno fatto pure un comunicato per dirmi che devo dimettermi. Bene - si è sfogato - e allora io vado avanti. Voglio vedere se c'è davvero bisogno delle dimissioni. Io non ho bisogno di una poltrona per il futuro, ho fatto tanto nella vita e un lavoro ce l'ho. Io". Quella nota ufficiosa di Piazza Santa Anastasia proprio non gli è andata giù. Tanto da pretendere una smentita ufficiale del vice segretario Dario Franceschini. E a poco sono servite le rassicurazioni dello stesso Veltroni che gli ha ribadito di essere al suo fianco: "Noi stiamo dietro a te".
Parole che Palazzo Chigi considera di pura cortesia. Così come non ha apprezzato il forcing del Colle. Nell'incontro svoltosi all'ora di pranzo, Napolitano aveva incassato la disponibilità a rimettere il mandato dopo la fiducia a Montecitorio in cambio di una garanzia esplicita a favore di un reincarico, magari in chiusura di crisi. L'intesa, però, è durata solo un paio d'ore. "L'astensione dell'Udeur, - ha poi fatto sapere il premier - ha cambiato le cose". Ecco allora un nuovo colloquio con il Quirinale, stavolta telefonico. Molto più teso del primo. I toni più aggressivi. La divaricazione più netta. "Capisci - è stato il ragionamento del capo dello Stato - che così restringi la mia azione. Se verrai battuto, non potrò più affidarti un altro incarico. Lo dico per te". Discorsi che non attecchiscono a Palazzo Chigi. L'inquilino del Colle però non si arrende, non vuole rinunciare al suo ruolo. Immaginando persino un "governo del presidente" presieduto da personaggi come Franco Marini e Giuliano Amato in primo luogo, o come Mario Draghi e Mario Monti.
Disegni senza appeal per Prodi. Così come non ha avuto presa l'offerta di Gianni Letta. Di cui il messo del Cavaliere ha parlato anche con Veltroni, con il presidente della Camera Bertinotti e con il leader dell'Udc Casini. Ricevendone un via libera di massima. Il segretario del Pd non gli ha negato un "interessamento", il vicesegretario Franceschini addirittura ha già posto delle "condizioni" programmatiche. E il capo dei centristi si è dichiarato "favorevole" a ragionare in questi termini. Anche perché l'oggetto primario di questo "esecutivo di tregua" sarebbe la riforma elettorale da costruire intorno all'ultima "Bozza Bianco" leggermente rivista in senso maggioritario. Per di più, tutti hanno ben presente che in aprile si giocherà il più grande "risiko" di nomine pubbliche dei prossimi anni. In palio ci sono i vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Terna, Tirrenia. Tante poltrone che possono rientrare in una trattativa complessiva. Non è un caso che, sempre ieri mattina, lo stesso Berlusconi si sia fermato a parlare con Napolitano a Montecitorio. Il leader di Forza Italia vuole avviare il negoziato sapendo che il Colle è già pronto a assumere un iniziativa. "O ci sarà un accordo tra i partiti - ha ripetuto il presidente della Repubblica ai suoi interlocutori - oppure sarò io a fare l'arbitro".
Prodi, però, pensa di correre "in solitario". A Palazzo Chigi, allora, fanno notare che i 51 voti di maggioranza alla Camera sono più del previsto, che i "mastelliani" sono in subbuglio (Nuccio Cusumano, ad esempio, è tentato di rompere la disciplina di partito a Palazzo Madama) e a livello locale remano contro il loro segretario, che la Lega si sta impuntando con il Cavaliere per frenare l'arrivo della stessa Udeur. E se Palazzo Madama gli dovesse concedere il sì, anche se con i voti determinanti dei senatori a vita, allora il "governo di tregua" lo proporrà lui. "Ma sarò io a dare le carte".
(24 gennaio 2008)
Repubblica.it |