Esce l'opera omnia dei Traveling Wilburys dietro cui in realtà si celavano artisti del calibro di George Harrison


ANDREA SCANZI

La decisione di raccogliere in un cofanetto l'opera omnia dei Traveling Wilburys, riporta alla luce un fenomeno mai troppo indagato della musica contemporanea: quello del «progetto parallelo», dell'alter ego. Fernando Pessoa aveva creato svariati eteronimi, ognuno dei quali dotato di vita e personalità indipendenti dal loro creatore, declassato a mero «ortonimo». Qualcosa di simile accade, con frequenza, nel rock (mentre nel jazz è quasi la norma).

Gli stessi Traveling Wilburys, di cui l'etichetta Rhino Records ha ristampato i due dischi (più inediti e un dvd), nacquero per caso. George Harrison e il suo produttore Jeff Lynne (ex Electric Light Orchestra) stavano cercando una sala d'incisione a Los Angeles per incidere il lato B del singolo europeo tratto da Cloud Nine di Harrison. Era il 1987. In nome della vecchia amicizia, Harrison chiese a Bob Dylan di poter usare la sua casa di Point Dume. Durante la registrazione si creò un'alchimia particolare. Ai tre si aggiunsero Tom Petty e Roy Orbison, insieme composero e suonarono Handle with care. Il brano, alla fine, fu reputato «troppo» bello per essere relegato a lato B. Così, attorno a quella canzone, nacquero un disco e una superband. Le cinque star si nascosero sotto pseudonimi e nome comune: Traveling Wilburys. Dylan e i suoi compagni - che in sala d'incisione si rapportavano tra loro rispettando le nuove identità e dimenticando quelle originali - crearono anche la storia di una popolazione misteriosa, i Wilbury. Il booklet di Volume 1 riporta la storia del popolo immaginario, con una dovizia di particolari di cui solo Dylan può essere capace. La morte improvvisa di Orbison fermò il progetto, il secondo disco non fu all'altezza del primo e i Traveling Wilburys smisero presto di viaggiare.

Molte altre volte l'artista musicale, ormai affermato e un po' stanco del proprio successo, diventa «altro da sé». Si fa eteronimo e dimentica l'ortonimo. A volte lo stimolo è quello, musicale, di percorrere sentieri sonori diversi. Damon Albarn dei Blur ha per questo varato prima i Gorillaz e poi i The Good The Bad And The Queen. Similmente, i Damned e gli XTC, per rifare i classici del garage e della psichedelica, si ribattezzarono rispettivamente Naz Nomad & The Nightmares e Dukes Of Stratosphear.

In altri casi, alla base di tutto c'è un istinto ludico, la volontà di «divertirsi soltanto». Mark Knopfler creò i Notting Hillbillies, Ry Cooder e John Hiatt tornarono insieme con i Little Village. Elvis Costello e T-Bone Burnett furono i Coward Brothers, Warren Zevon e i Rem vararono gli Hindu Love Gods, dietro il bizzarro nome Ciccone Youth si nascondevano Mike Watt e i Sonic Youth.

Ci sono, come Albarn, artisti raminghi che cercano di continuo contaminazioni esterne. Jeff Tweedy, deus ex machina dei Wilco, si diverte a suonare in gruppi minori come Golden Smog e Loose Fur. Più spesso l'artista crea identità parallele. L'alter ego può dipendere da conversioni religiose (Cat Stevens, Terence Trent D'Arby) o più spesso da un'imprecisata voglia di rinascere. L'ultimo Nick Cave si è nascosto dietro il progetto Grinderman, David Bowie - il re dei trasformisti - è stato Ziggy Stardust, Prince per molti dischi si celò dietro l'improbabile acronimo di Tafkap (stava per «The Artist Formerly Known As Prince»). David Johansen ebbe a lungo l'alter-ego Buster Poindexter, Tricky inventò l'inquietante Nearly God. E' accaduto anche in Italia, ad esempio con Edoardo Bennato, che in un album si camuffò dietro le fattezze un po' tamarre del bluesman Joe Sarnataro.

In questo esercito di registrazioni clandestine, l'artista celebrato insegue un'invisibilità con cui staccare la spina. Sono dischi quasi sempre minori, incisi da fantasmi famosi, che si divertono così tanto e si mostrano così leggeri da rischiare - forse deliberatamente - l'effetto opposto e contrario: quello di suonare (soltanto) per se stessi.

DOPO I ROLLING STONES
Per Scorsese documentario sull’ex Beatle
Dai Rolling Stones ai Beatles: dopo la pellicola Shine a light su Mick Jagger e compagni, Martin Scorsese lavora a un documentario musicale sull’ex Beatle George Harrison. Lo scrive la rivista tedesca Horzu, secondo cui il regista americano «vuole esplorare le molteplici facce, lo spirito e la musica» di Harrison, morto di cancro nel 2001. E’ d’accordo la vedova di Harrison, Olivia, che metterà a disposizione l’archivio privato.

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