Ignara quanto Roma prima che i barbari ne sfondassero le porte, immemore come Pompei alla vigilia del rutto genocida del Vesuvio, Seattle era del tutto impreparata allo stupro e al saccheggio cui fu sottoposta ieri sera la sua gioventù all’Eagles Auditorium. E nemmeno era pronta per l’unzione, per l’iniezione di potenza, per la santificazione che furono a loro volta parte integrante di un concerto rock unito a suprema prova psichica unita a rito estatico sparato a tutto volume. Ormai da qualche tempo le band «di casa» adottate da Seattle sono gli Youngbloods e Country Joe & the Fish, dei complessi le cui banane elettriche possono scioccare il consorzio dei benpensanti, ma che nei confronti dei loro fans sono popolari e affettuosi come cagnolini psichedelici. Abituati a farsi leccare il viso, i seattleiani sono stati sorpresi a guardia bassa da un gruppo che, anche se può episodicamente usmare qualche inguine, di certo non scodinzola; da un gruppo che incarna lo Zeitgeist prevalente, con tutto il suo ottimismo politico, la consapevolezza spirituale e la trascendenza liberatrice rispetto ai valori obsoleti: ma la incarna con una forza, una concentrazione e una veemenza teatrale senza precedenti; un gruppo che ostenta anziché ovattare la minaccia portata dalla nuova cultura alla vecchia - e lascia entrambe groggy a seguito dell’esperienza. Quando, frastornati ma galvanizzati, ieri sera siamo usciti barcollando dalla sala, tutti e ciascuno eravamo sotto l’incantesimo di quattro musicisti che, in modo assai innocuo, hanno preso il nome da un aggeggio semplice, onnipresente, utilitaristico delegato alla chiusura e all’apertura di spazi architettonici.
Sicuro, i Doors: le porte. Sì, ma mio Dio, che razza di porte sono queste? Immaginate pannelli di vetro ingioiellati, pomelli che somigliano a falli sputacchianti, buche delle lettere lucenti come zucche di Halloween - e nessuno zerbino del benvenuto in vista. Entrate se avete il coraggio, figli miei, e uscite se siete capaci.
I Doors. Il loro stile è proto-cunnilinguale, tardo-parricida, ora di pranzo nell’Everglades, sanguinaccio della Foresta Nera su pane elettrificato, Jean Genet al palo di un totem, artisti sulle barricate, Edgar Allan Poe che annega nel catino per gli uccelli, la Strage degli Innocenti, la tarantella dei satiri, i baccanali, le dionisiache, dèi pagani di Los Angeles che trascinano giù la luna. I Doors. L’equivalente in musica di un sacrificio rituale, un battito sessuale amplificato, un rantolo di rimpianto piagato e tuttavia con una sua eleganza per l’anima perduta dell’America, prestidigitatori istrioni che ricavano sidro inebriante dalle mele del Paradiso Terrestre carezzando la testa del serpente.
I Doors. L’intensità comincia nel momento in cui si aggirano predatori sul palco e non cessa fino a quando la purga non è terminata, la catarsi completa. Neanche tra un numero e l’altro c’è pace: niente chiacchiere, né gigionerie, né vani giochetti. Come gli attori classici del Giappone, i Doors proiettano tanta più intensità quando sono in silenzio. Si scaldano, perfino, con una partecipazione così feroce che farebbe schizzare i Mamas & Papas fuori dai loro mutandoni di mammotte e paparotti.
I Doors. La loro voce è scura e insanguinata, una voce di viscere. Satanica nella combustione, sbranante nell’energia, formidabile nello spirito. La voce di Nietzsche interrotta per il terrore, succuba alla follia, bramosa di salvezza della carne. La voce brechtiana dell’auditorium di Berlino, che ammonisce una nuova generazione contro la marea montante del fascismo americano. Una voce inzuppata di una rabbiosa ira di distruzione - e tuttavia né sguaiata né negativa. Come Shiva, il Divino Distruttore degli indù, i Doors uccidono solo par sgombrare la strada alla rinascita; evocano l’eterno equilibrio ritmico della vita e della morte, del buio e della luce - perché le porte che davvero importano oscillano in entrambe le direzioni.
Le quattro Porte:
John Densmore, batteria. Forse il migliore batterista rock, in assoluto. Mentre la maggioranza dei batteristi raramente si distacca dalla ritmica beat, Densmore le battute le attraversa - dentro e fuori, avanti e indietro, creando controtempi e sottolineando le battute non accentate. Non solo dota i Doors di una mirabolante complessità percussiva, ma li invita a misurarsi con nuove indicazioni del tempo, guidandoli di fatto lungo la loro linea melodica epica.
Ray Manzarek, organo. Autorevole come il Pigpen dei Grateful Dead, ma molto più sofisticato, si è palesemente fatto gli artigli su Bach. Manzarek scorre attraverso un campo di variazioni e figurazioni non meno grandiose del più opulento barocco. Ora è adattabile e scrupoloso, e un momento dopo sta dilaniando la tastiera come un affamato che sbrana un pollo.
Robby Krieger, chitarra. Con batteria e organo a guidare la danza, Krieger assicura un ritmo duro e senza cedimenti, che ogni tanto divampa in nuove, abbaglianti rivelazioni di modulazione e accordi.
Jim Morrison, voce. Morrison comincia dove Mick Jagger ed Eric Burdon passano la mano. Combinazione elettrizzante di angelo in stato di grazia e cane in calore, si ubriaca del pericolo della sua poesia e, travolto da un’empia ilarità, inarca il microfono, lo picchia, lo ciuccia. Sessuata in senso quasi psicopatologico, la voce ricca e pastosa di Morrison provoca e stuzzica, pulsa e minaccia. Con un controllo vocale pazzesco, e la proiezione teatrale di una star shakespeariana, gioca con le emozioni del pubblico come una bambina discola con le sue bambole: ora vi bacio, piccoli miei, ora vi torco il collo.
I Doors sono carnivori in una terra di vegetariani musicali. La loro perizia artigianale è tanto più sbalorditiva alla luce della loro natura selvaggia. Hanno la compattezza d’insieme dello Juilliard String Quartet - ma la loro grandeur non appartiene all’intelletto, bensì al caldo rosso sangue. Raramente dissimulano le macchie agli speroni, le zanne umide e le ali fibrose; e tuttavia ci lasciano, se da una parte esausti e con l’inguine esposto, dall’altra consapevoli di essere vivi. E del nostro destino. I Doors gridano nel buio dell’auditorium quello che tutti noi vicini alla controcultura stiamo sussurrando a voce più bassa nei nostri cuori: Vogliamo il mondo e lo vogliamo..................................................ORA!
The Helix, 1967
Tratto da Le anatre selvatiche volano al contrario di Tom Robbins (Baldini Castoldi Dalai editore)
http://www.bcdeditore.it/Catalogo/Scheda_libro.aspx?id=2285
E per saperne di piu' :
http://www.thedoors.com/
http://it.wikipedia.org/wiki/The_Doors
http://www.ondarock.it/rockedintorni/doors.htm
http://www.delrock.it/photogallery/2007-04/the_doors_19672007.php