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Jeff Buckley Grace (Columbia, 1994)




Jeff Buckley Grace (Columbia, 1994)

Mojo Pin / Grace / Last Goodbye / Liliac Wine / So Real / Hallelujah / Lover, You Should’ve Come Over / Corpus Christi Carol / Eternal Life / Dream Brother


Pubblicato nell’agosto del 1994
Prodotto e mixato da Andy Wallace
Registrato ai Bearsville Studios di Woodstock, New York
Art direction & design: Nicky Lindeman, Christopher Austopchuk
Foto di copertina: Merri Cyr, David Gahr

Musicisti: Jeff Buckley (voce, chitarra, harmonium, organo, dulcimer e tablas in Dream Brother); Mick Grondahl (basso); Matt Johnson (batteria, percussioni e vibrafono in Dream Brother); Michael Tighe (chitarra in So Real); Gary Lucas (‘magicalguitarness’ in Mojo Pin e Grace); Loris Holland (organo in Lover, You Should’ve Come Over); Misha Masud (tablas in Dream Brother); Karl Berger (arrangiamento d’archi).

È un’opera particolare, Grace. Difficile da valutare con lo stesso metro di giudizio che usiamo abitualmente per tutti gli altri album. Non è un disco perfetto, se per perfezione si intende grande attenzione ai particolari formali e qualità delle composizioni sempre eccellente. Ci sono peccati di ingenuità, ma c’è anche una sensibilità straordinaria che illumina tutte le composizioni, una ‘grazia’ unica e irripetibile. In queste dieci canzoni Jeff Buckley è riuscito ad esprimere quello che tutti vorremmo comunicare, le mille parole che ci piacerebbe dire al mondo e che non riusciamo a tirare fuori, che ci rimangono strozzate in gola o, peggio ancora, che per vigliaccheria ci teniamo per noi. Eppure, secondo le parole dello stesso Buckley, "essere sensibili non significa essere deboli. Significa essere dolorosamente consci del fatto che una mosca che si posa sulla schiena di un cane possa fare un rumore simile ad uno scoppio supersonico".

Inizia presto ad ascoltare musica, il giovane Jeff. Comincia presto anche a suonare e a scrivere le sue canzoni. Eppure arriva al debutto sulla lunga distanza solo a 27 anni. In pratica inizia da dove aveva smesso il padre Tim (morto proprio all’età di 27 anni, però dopo aver pubblicato ben otto album). Un modo per raccogliere il testimone del celebre genitore? Nemmeno per sogno. Cerca in tutti i modi di nascondere la sua vera identità e non parla mai, ma proprio mai, del padre.

Hal Willner nel 1991 organizza a New York un concerto-tributo a Tim Buckley. Informato sull’esistenza di un figlio che è anche un cantante lo rintraccia e gli chiede di partecipare alla serata. Jeff, che al tempo era praticamente sconosciuto, sale sul palco senza essere presentato come figlio di Tim e interpreta tre canzoni del repertorio del padre: I Never Asked To Be Your Mountain, Once I Was e The King’s Chain. Tutti i presenti in sala capiscono immediatamente che qualcosa sta succedendo, i più attenti non tardano molto a riconoscere nel timido ragazzo sul palco il figlio del grande Tim Buckley: stessa voce, stesso timbro, stessa intensità, stessi lineamenti del viso. Solo i capelli sono diversi, Jeff non ha i grandi ricci del padre, per il resto la somiglianza è davvero stupefacente. Chi assiste a questa performance comprende anche un’altra cosa: cioè che una nuova stella è già pronta a risplendere nel cielo del rock.

Jeff arriva al primo album dopo anni di militanza in locali suonando prevalentemente cover (il mini-album Live at Sin-é rimane una fedele testimonianza di quel periodo); non è un caso quindi che ben tre brani sui dieci contenuti in Grace siano delle riletture.

Il processo di avvicinamento alla registrazione è insolitamente lungo. Prima individua in Andy Wallace l’uomo giusto per occuparsi della produzione, poi dallo stesso Wallace si fa consigliare per la scelta degli studi. Alla fine decidono insieme per i Bearsville Studios di Woodstock (luogo che a distanza di trent’anni rimane una sorta di città sacra per il rock), fuori dalla mischia della Grande Mela, ma abbastanza vicino da poterci tornare senza troppa fatica all’occorrenza. Ma la ricerca più lunga e faticosa diventa quella per reperire i musicisti giusti. Buckley capisce subito che non dovranno essere i soliti turnisti, virtuosi dello strumento che passano da uno stile ad un altro, da un disco all’altro, con distacco e senza essere coinvolti emotivamente in nessun progetto. Il giovane Buckley ha bisogno di persone capaci di entrare in sintonia con il progetto, non solo, devono essere preferibilmente anche amici (non a caso in due degli scatti poi inseriti nel libretto si fa immortalare insieme al resto della band, fatto poco usuale per un solista). Con questo criterio arriva a selezionare tre persone diversissime tra loro: Matt Johnson è ben inserito nella scena newyorkese, Mick Grondhal in realtà segue i concerti di Jeff e si innamora della sua musica, infine Michael Tighe è l’unico che Jeff conosce da tempo.

Il lavoro in studio è per buona parte già organizzato prima di iniziare. Grace diventa da subito un riassunto del periodo della carriera artistica di Buckley: sono pochi i brani composti per l’occasione, la maggior parte risale a un periodo compreso tra il 1990 e il 1993. Mojo Pin ed Eternal Life si possono trovare in Live at Sin-é (si tratta di canzoni scritte insieme a Gary Lucas al tempo del progetto aperto chiamato Gods And Monsters), mentre canzoni come Grace, Last Goodbye e Lover, You Should’ve Come Over sono già conosciute dal pubblico che ha potuto assistere alle esibizioni live del giovane Buckley. Resta quindi da scegliere quali cover inserire e completare l’album con un paio di pezzi nuovi, apparentemente un compito semplice e veloce, e invece le registrazioni, cominciate nel settembre del 1993, si protraggono fino all’inizio dell’anno nuovo. Per Jeff, come è naturale che sia, il lavoro in studio è un’assoluta novità, ma anche la band inizia a trovare una propria misura solo dopo qualche tempo. Le session sono già completate, ma è scattato il meccanismo che porta un gruppo di musicisti a continuare senza sosta, solo per il piacere di suonare.

L’album si apre con Mojo Pin, uno dei vertici drammatici dell’opera con la voce di Jeff in primissimo piano, inizia come un sussurro, una carezza, per poi salire in alto là dove nessun altro può aspirare ad arrivare. Un brano che cresce, si ferma, riparte, per poi terminare in un vortice di voce e chitarre, in un certo senso rappresenta in maniera efficace l’intero album: c’è tutto e il suo contrario. Il brano che dà titolo all’album raddrizza subito dopo il tiro, ora è evidente che la voce conquista non tanto e non solo per la sua estensione, quanto piuttosto per l’incredibile forza espressiva. Lover, You Should’ve Come Over è il prototipo della composizione aperta che tanto affascinava Jeff. Alla fine Wallace riesce ad imporsi e costringe Buckley a ridurre la durata del pezzo da una decina di minuti (a tanto arrivava nei concerti) a soli, si fa per dire, sei minuti e quarantadue secondi. Last Goodbye invece testimonia lo sforzo compiuto per rimanere dentro i confini della classica canzone pop, un pezzo ordinario, se messo a confronto con la complessità degli altri episodi, eppure proprio nella sua semplicità risiede la sua forza e la sua efficacia. In questa occasione gli arrangiamenti per archi curati da Karl Berger aggiungono spessore ad un impianto già di per sé notevole. Eternal Life apre a un aspetto più duro e diretto della musica, quello che poi Buckley sceglierà di approfondire con il contributo di Tom Verlaine nel seguito di Grace (il disco uscirà postumo con il titolo Sketches For My Sweetheart The Drunk).

Infine, non esistono frasi adatte per descrivere le interpretazioni di Liliac Wine e di Hallelujah. Proprio questi due gioielli fanno ritornare in mente le parole di Lee Underwood riferite al padre di Jeff: "Tim Buckley ha fatto per la voce quello che Hendrix ha fatto per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sax". Jeff si avvicina a questi due brani attraverso vie traverse, si appassiona alla versione di Liliac Wine offerta da Nina Simone, mentre per Hallelujah non prenderà a modello l’originale di Leonard Cohen quanto piuttosto la struggente versione per solo piano e voce offerta da John Cale in Fragments For A Rainy Season.

Nella bellissima foto di copertina Jeff tiene in mano un microfono e rivolge lo sguardo in basso come a voler nascondere qualcosa, eppure in queste dieci canzoni ci racconta il dolore, la grazia, la passione, la gioia, la compassione, la spiritualità. Tutto, insomma.

C’è in questo disco il coraggio di un uomo pronto a scendere fino al punto più profondo dell’abisso, c’è anche una tensione al rischio propria di coloro che non si vogliono fermare di fronte a nulla. Neppure di fronte ad un vortice nel canale di Memphis: "Ecco che viene la mia ora, non ho paura di morire" (da Grace). (EP)

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