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Morphine - Cure For Pain (Rykodisc, 1993)



Tracklist :
Dawna
Buena
I’m Free Now
All Wrong
Candy
A Head With Wings
In Spite Of Me
Thursday
Cure For Pain
Mary Won’t You Call My Name?
Let’s Take A Trip Together
Sheila
Miles Davis’ Funeral

I bostoniani Morphine sono stati una delle band più criptiche e geniali degli anni Novanta, tanto che risulta impossibile definire il loro stile usando le solite etichette coniate dai critici musicali. Infatti, i giornalisti musicali, nell’ultimo decennio del Novecento, si sono sbizzarriti nell’inventare nuovi termini per descrivere le proposte più interessanti del periodo, dallo slo-core di Codeine e Low al post-rock di Bark Psychosis e Slint, ma non sono riusciti a “inchiodare” in una parola la proposta musicale romantica e minimalista dei Morphine. Insomma, era una sfida persa in partenza quella di definire un trio rock che non annoverasse nella sua strumentazione una chitarra e il cui sound si reggesse su basso (Mark Sandman), batteria (Jarome Dupree) e sax baritono (Dana Colley).

Allora, ci pensò spesso Mark Sandman, oltre che bassista anche cantante del gruppo, a coniare definizioni improbabili e fantasiose per la sua musica, definizioni spesso ironiche e grottesche, ma non prive di fondamento. Ai giornalisti che gli chiedevano continuamente di descrivere la musica suonata dai Morphine egli rispondeva, infatti, con dei veri e propri “neologismi musicali”: “baritone experience” parafrasava il leggendario trio di Jimi Hendrix mettendo in risalto il loro sound baritonale; “low-rock”, invece, poneva l’accento sui registri grevi e bassi su cui si attestavano i tre musicisti. Ma la definizione più geniale fu “grunge implicito”, che dava l’idea di una musica devastante, ma implosiva, chiassosa e autistica al tempo stesso.

Oltre a dispensare queste ludiche definizioni sulla sua musica, Sandman fu anche un grande sperimentatore di suoni e un acuto inventore di nuovi strumenti. Innanzitutto il suo non era un comune basso: si trattava, infatti, di un basso “fretless”, cioè senza tasti, dotato tra l’altro di due sole corde e suonato in stile slide. Un’altra sua invenzione fu il tritar, derivato da strumenti africani a una sola corda e assemblato con due corde di chitarra e una di basso.

“Cure For Pain” è il secondo album della band, successore dell’altrettanto eccellente “Good” è uno dei dischi più acclamati e amati dagli estimatori della compagine di Boston. I brani del disco sono in tutto tredici, undici dei quali sono vere e proprie canzoni, mentre due, poste significativamente ad apertura e chiusura del disco, sono brevi strumentali (la narcotica “Dawna” e il requiem per chitarra acustica e percussioni “Miles Davis’ Funeral”).
Tra i primi brani, a imporsi sono le sincopi vorticose di “Buena” e il cupo swing di “A Head With Wings”, ma brillano di una sporca luce anche “I’m Free Now”, con sax funereo e voce catacombale, e “All Wrong” dalla frenesia trattenuta.
“Candy”, invece, è un silenzioso capolavoro sulla solitudine urbana, un affresco sulla desolazione metropolitana come i dipinti di Edward Hopper o le “sculture viventi” di George Segal.

“In Spite Of Me” è la sorpresa del disco: il canto cavernoso di Sandman si fa metafisico, gli arrangiamenti grevi dei brani precedenti lasciano il posto a teneri accordi di mandolino, le caotiche atmosfere fumose virano in armonie bucoliche. Per una volta la dolcezza vince il dolore e si impone come sua cura.
Dopo questo estatico intermezzo, si riprende con il boogie depravato di “Thursday”, seguito dalla splendida title track, che manda a nozze la passione del blues e la perizia del jazz. I Morphine più torbidi sono, però, quelli di “Mary Won’t You Call My Name?” (brano dall’enorme carica erotica), “Let’s Take A Trip Together” (dall’andamento abulico e malato) e “Sheila” (vera e propria ossessione sadomaso).

L’opera dei Morphine non ha avuto proseliti e, a ben vedere, non poteva averne: in primo luogo, perché la loro proposta musicale era talmente ardita e personale da scoraggiare chi ne volesse seguire le orme; poi, perché la loro formula stilistica sarebbe stata forse irripetibile, dato che coagulava jazz e new wave, indole minimalista e furore blues, Nick Cave e Velvet Underground. Infine, perché i Morphine erano estranei a certe pose da rockstar.

Anche la morte di Mark Sandman, avvenuta addirittura su un palco a Palestrina nel 1999, non ha avuto alcunché di plateale o mitologico, come avvenuto invece per altri importanti artisti che hanno segnato il rock degli anni Novanta. Si è spesso cercato di vedere Kurt Cobain e Jeff Buckley come dei predestinati alla morte precoce, andando a scovarne segni premonitori nelle loro canzoni. Questo gioco necrofilo con un antidivo come Mark Sandman, anche se è stato provato, per fortuna non ha funzionato, e ha lasciato intatta la sordida bellezza della sua musica.



di Salvatore Setola
http://www.ondarock.it/pietremiliari/morphine_cure.htm
13/10/2007 16:04
 
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Frank Zappa - Hot Rats (Bizarre 1969)Rock


Egocentrico, anarchico, folle, bizzarro, geniale: Frank Zappa e' questo e molto di piu'. Un personaggio sempre sopra le righe, un artista che non si e' mai piegato al "sistema", e che fino a quando la morte non lo ha portato via, ha avuto il coraggio e la sfrontatezza di sputare tutto il suo essere su di una societa' troppo borghese e perbenista per poterlo comprendere.

Dopo una lunga carriera contraddistinta da una moltitudine di cambiamenti, nessuno con precisione potra' dire o sapere quale fosse il vero volto artistico di Frank Zappa: l'ironia e il suo essere sardonico lo hanno contraddistinto come autore singolare, amabile o disprezzabile in ugual misura. Musicalmente ha spaziato per tutti i generi musicali esistenti, riuscendo proprio in questo contesto a creare un sound tipicamente "zappiano" che ha fatto scuola. Lo sfavillante album d'esordio "Freak Out!" lo catapulto' come una bomba ad orologeria nel mondo del rock. Era il 1966 e Zappa era l'imperatore del mondo freak. Le "stupid songs", definite cosi' da lui stesso, non sono altro che mezzi attraverso le quali riempire di stilettate velenose tutto il bigottismo imperante e l'ipocrisia di una cultura, canzoni "stupide" per trasformare politici in buffe e grottesche caricature da fumetto; canzoni "stupide", volutamente superficiali nei temi e nelle liriche, proprio per dar forza ancora e di piu' all'incedere storpiato e ridicolo di quei personaggi di cui Zappa amava tanto prendersi gioco.

Le Mothers Of Invention sono i degni sudditi di Zappa nel primo periodo, fulgido e geniale, della sua carriera: lo aiutano a trascrivere in musica i propri sberleffi, con trame musicali complesse e colorate di infinite sfumature. Quindi, nel 1969, Zappa rimescola la sua formazione e dà vita agli Hot Rats, mettendo insieme Captain Beefheart, i violinisti Ponty e Don "Sugar Cane" Harris, Underwood, e un'imponente sezione ritmica.

L'omonimo album "Hot Rats" inizia in modo fantasmagorico con "Peaches En Regalia", una piccola suite, splendida negli arrangiamenti e nell'orchestrazione. E' un intreccio di trame in cui i fiati, le tastiere, la chitarra e il pianoforte duettano reciprocamente, creando a loro personalissimo modo un impasto sonoro dalle molteplici personalita', che riescono a interagire con coerente armonia. Sublime sinfonismo in un brano senza eta', dunque, che anche a distanza di anni riesce a resistere all'usura del tempo, mantenendo inalterato il proprio avvolgente fascino.

Alla vena sardonica di Captain Beefheart, antico amico/nemico di Zappa, è affidata "Willie The Pimp", l'unica canzone ad avere una piccola ma significativa partitura scritta. E' un cantato gutturale e graffiante al tempo stesso, quasi da Orco, che ci accompagna nel cuore stesso della canzone; un totale trip chitarristico in versione sperimentale. Il Frank Zappa chitarrista si avventura in un terreno minato per complessita' di melodie e di esecuzione, disegna la melodia base, per poi allontanarsi da questa in completa improvvisazione. Sono parti chitarristiche, in cui viene privilegiata l'effettistica - la distorsione, il wah wah - il ritmo, poi, e' incalzante e non da' tregua al primattore: sembra quasi che da un momento all'altro Zappa stia per collassare, quando invece riesce a riprendere la melodia di base in maniera imperiosa, una melodia originale che e' coadiuvata dal violino supremo di "Sugar Cane" Harris. Menzioni speciali anche per la "macchina" ritmica, affidata al basso di Max Bennett, e per le percussioni di John Guerin, ambedue ottimi nel macinare tempi con potente precisione al punto da rendere il brano incandescentemente trascinante.

"Son Of Mr. Green Genes" parte con un'imperiosa introduzione, affidata alle tastiere e ai fiati, grazie ai quali gli Hot Rats riescono a disegnare raffinati ceselli barocchi, proiettandoci in un mondo lontano e irraggiungibile; la melodia viene ripetuta a rotazione per qualche minuto fino a che improvvisamente avviene il primo di molteplici stacchi, che ci catapulta in un crescendo di tensione: un clima totalmente diverso da quello in cui la canzone si era presentata all'origine. La particolarita' di questo stacco e' che introduce una "entrata" chitarristica tra le piu' spettacolari di tutta la musica moderna: i primo 30 secondi sono da antologia, e ci presentano uno Zappa coinvolto e incisivo, che riesce a dare un'anima al suono del proprio strumento e lo stravolge in maniera celestiale, creando uno stupefacente connubio in perfetta simbiosi fra brutalita' e armonia. Il brano cambia umore a ripetizione, reinventandosi repentinamente sotto molteplici vesti; e' una jam in studio, e la parte centrale di questa e' pure teatro di un favoloso inserimento a base di sax contappuntato ad opera di Ian Underwood, che riesce prima a sorreggere la melodia principale, con accordi ripetuti e incalzanti, poi a duellare con la chitarra estrema di Zappa. Sax e chitarra elettrica all'unisono: raramente nel rock tale singolare connubio ha raggiunto vertici cosi' elevati.

"Little Umbrellas", invece, conduce verso atmosfere piu' marcatamente jazzate, in cui la parte principale e' appannaggio di un lavoro di "rilegatura" fra i vari strumenti ad opera di tastiere a organo, che creano una sonorita' sinistra, quasi da marcia funebre. Importante e fondamentale e' poi il ricamo melodico di certi strumenti a fiato, come il flauto, ad esempio, che timidamente, ma con garbo, spunta fuori fra le pieghe del brano stesso. Si prosegue con "The Gumbo Variations": il pulsante riff bassistico introduttivo di Max Bennett fa da preludio all'arrivo di un sax avventuroso, ai confini della piu' totale rottura di suono. Underwood e' magistrale in questo suo solismo in pura chiave jazz: e' un esercizio di stile senza confini e barriere. Il brano prosegue supportato da una ritmica traboccante di tempi dispari, e Zappa in sottofondo si produce in un lavoro oscuro d'impostazione ritmica, fino a che, in una totale esplosione orgiastica di suoni, prende il sopravvento il violino di "Sugar Cane" Harris, che si produce in un solo allucinato e geniale, riuscendo a strappare dal cuore del proprio strumento sibili e suoni mai uditi prima da un violino. Il violino cede il passo al solismo ruvido di Zappa e a quello tecnico di Paul Humphrey, per poi concludere il tutto in una esplosione d'avaguardismo jazzato fra i piu' esasperati. Il jazz levigato e morbido non abita qui. Qui regna la vena piu' ulcerosa e torrida, che vola oltre tutti gli schemi, spaziando in lungo e in largo verso maratone improvvisative-sperimentali.

Il clima si fa piu' rilassato nella conclusiva "It Must Be A Camel": i rutilanti tempi dispari delle percussioni creano i presupposti per un canto corale fra il sax e il piano in sottofondo. La brutalita' che ha contraddistinto episodi importanti dell'album lascia il passo a un raffinato suono d'insieme, dominato a meta' brano da un solismo di Zappa che si distende verso sonorita' piu' pacate, salvo poi sorprenderci in esplosioni elettriche fulminanti e repentine.



Tracklist :

Peaches En Regalia
Willie The Pimp
Son Of Mr. Green Genes
Little Umbrellas
The Gumbo Variations
It Must Be A Camel



di Stefano Pretelli
http://www.ondarock.it/pietremiliari/zappa_hot.htm
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