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Benigni: "Un film candido e feroce sulla forza eversiva dell'amore"

La storia di un poeta che tenta di salvare la donna amata tra le macerie dell'Iraq. Tra commedia, tragedia ed effetti speciali.



ROMA - Un film "candido come la neve, e furioso come la tigre". Disarmante come il protagonista, il poeta Attilio, pronto a combattere la sua "guerra d'amore" perfino tra le macerie e i posti di blocco di un conflitto vero, quello iracheno. E potente come il sentimento senza confini che il nostro eroe nutre verso la donna oggetto della sua passione: "Una forza feroce, che ti sbrana. Altro che roba dolciastra, altro che buonismo: è qualcosa di eversivo, di rivoluzionario".

Così Roberto Benigni illustra ai cronisti il suo attesissimo La tigre e la neve, pronto a invadere - con la cifra-monstre di quasi 900 copie - i cinema italiani, a partire dal 14 ottobre, con distribuzione 01. Una storia allegra e tragica, romantica senza pudori, interpretata dallo stesso Benigni, da Nicoletta Braschi (nel ruolo dell'amata Vittoria) e da un Jean Reno grande come sempre, nei panni di un poeta iracheno. Per raccontare - sono ancora le parole del regista, che ha anche scritto la sceneggiatura insieme a Vincenzo Cerami - "un amore di quelli che ti sfasciano il ventricolo del cuore". Così, quando la sua lei (in apparenza indifferente alla sue avances) parte per l'Iraq per raccogliere altro materiale sull'uomo su cui sta scrivendo una biografia (Reno), e resta ferita, lui, Attilio, un divorziato padre di due figlie, la raggiunge e fa di tutto per salvarla. Prima di un finale a sopresa. E sulle note di una colonna sonora firmata dal fedele Nicola Piovani, e impreziosita da un brano di Tom Waits (che lo canta anche nel film).

Un'opera narrativamente compatta, che esprime con forza la poetica stralunata e sempre un po' stupita del suo autore. Reduce prima dai trionfi della Vita è bella, poi dalle critiche meno benevole a Pinocchio. Ma quello che si presenta oggi in conferenza stampa, davanti ai cronisti freschi di visione in anteprima del film, è un Benigni più in forma che mai: "Vi ricordo che intervistarmi è pericoloso - scherza - c'è un giornalista che lo ha fatto e ha perso il lavoro...". E dopo questo riferimento a Enzo Biagi, l'immancabile frecciata a Berlusconi: "Il mio è un film ad personam - dice, a proposito dei suoi ruoli di regista e protagonista - una sorta di salva-Benigni. E per scegliermi come attore non sono state fatte primarie...".

Ma queste sono le uniche concessioni all'attualità italiana. Perché poi l'autore tiene a parlare solo del suo La tigre e la neve. Cominciando con lo sgombrare il campo da un primo equivoco: non si tratta di un film buonista. "Non mi sembra proprio che lo sia - spiega - così come non c'è ideologia, non è un'opera documentaristica sulla guerra, ma vuole toccare il cuore del pubblico, spaccare il cuore. Anche il suo discorso contro la guerra non è diretto: se lo fosse rimbalzerebbe indietro. Invece il modo di affrontare l'argomento è indiretto, evocativo". Con comprensione umana non solo verso gli iracheni - sul grande schermo vediamo saccheggi, campi minati, gente in fuga, feriti in ospedale - ma anche verso gli americani ai posti di blocco: "Sono ragazzi poveri - continua il regista - verso di loro non esprimo giudizi, ma mostro la mia pietas".

Insomma, Benigni rifiuta un'etichetta politica alla sua ultima fatica. Sulla base di una considerazione di carattere generale: "Con l'arte o con i film non si salva il mondo: servono solo a distrarre e a commuovere. Io qui volevo solo raccontare un ometto che con scacciamosche e sedia da barbiere (le uniche "armi" di Attilio in Iraq, ndr) combatte la sua guerra d'amore, mentre fuori i soldati combattono la loro. Ma credo che quella di lui sia più prepotente, eversiva". E altrettanto prepotente è la voglia di vivere del personaggio: "Attilio ce l'ha in maniera disperata, fa quasi paura. Non credo che la sua sia una storia dolciastra: parla di poesia e di sentimenti, cose che non bisogna stancarsi di ripetere".

Dunque l'autore ribadisce con forza la sua poetica, la sua visione della vita. Ma ovviamente un prodotto come La tigre e la neve è anche altro: in primo luogo un prodotto complesso, infarcito di effetti speciali. Ben 200 inquadrature contengono interventi digitali - a cura della Ubik Visual Effects - per un totale di 20 minuti di film.

In secondo luogo, la pellicola è anche l'uscita italiana forse più attesa della stagione, pronta a invadere i cinema di casa nostra, e destinata anche al mercato internazionale. Sull'impressionante numero di copie che verranno distribuite - almeno 800, ma alla fine si arriverà probabilmente quasi a 900 - Benigni è pronto a scherzare: "Siamo in tutte le sale d'Italia - dichiara - tranne una a Velletri e una a Viterbo...". Quanto al destino del film in terra straniera, Nicoletta Braschi, che con la sua società Melampo è anche produttrice, racconta che la pellicola "uscirà in Francia a dicembre, sta per essere venduta in vari paesi, e tra un mesetto ci occuperemo di trovare anche un distributore americano".

E in Iraq, il film uscirà? "Accidenti, spero proprio di sì - conclude Benigni - le scene ambientate lì le abbiamo girate in Tunisia, ma abbiamo avuto tanti consulenti iracheni. Hanno mostrato tanto amore per la sceneggiatura: faremo di tutto per farlo vedere alla popolazione".

Fonte Repubblica.it


08/10/2005 13:56
 
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Roberto il pacifista, amico dei soldati Usa

Nel nuovo film frasi contro la guerra inutile. Ma i marines sono visti con pietà: «Spesso sono solo persone povere o disoccupate»

Altro che antiamericanismo no global. I soldati Usa che presidiano i posti di blocco nella Bagdad benigniana appena occupata dalle truppe dell'Alleanza nel 2003, giura l’autore, sono «rappresentati con pietà. Anzi con pietas. Perché spesso i soldati sono persone che hanno bisogno di lavorare, disoccupati o poverissimi». E anche colti. Quando Benigni-Attilio De Giovanni, il poeta protagonista del film, cita Dante e poi Walt Whitman, monumento indiscusso della letteratura americana, gli occhi dei ragazzi in divisa si illuminano. Ancora Benigni, in conferenza stampa: «Quella sequenza poteva essere tagliata ma ho voluto che il personaggio dell’ufficiale pronunciasse il nome del poeta, "Whitman"».

I ragazzi in armi sono persino collaborativi e giocosi. Risolto ogni dubbio al posto di blocco i giovani yankees in casco e mimetica mettono da parte i bazooka (sottolinea l’autore) «e con un sorriso si mettono a spingere la motocicletta del poeta».

Chi cercasse il tradizionale canovaccio del pacifismo antiamericano per le vie della Bagdad benigniana rimarrebbe deluso. E’ proprio «Roberto», come lo chiamano assai familiarmente tutti, qui nel salone del St. Regis Grand Hotel, a dissolvere ogni dubbio in una conferenza stampa probabilmente per lui un po’ imbarazzante (la domanda più perfida parte con un «in questo bellissimo film così pieno di poesia...»).

Qualcuno lo interroga: la scena del posto di blocco è ispirato al caso Calipari? «No, tutto è stato girato prima... Quella vicenda è inaudita, indescrivibile, ci riguarda da vicino. Ma sono morti anche molti americani uccisi dai kamikaze al posto di blocco». Non è buonista, questo film, assicura Benigni, «perché è contro la guerra, prepotente e feroce, perché punta al cuore». Ma non è nemmeno «un film ideologico, forse per questo è più forte» .

Niente ideologie? Verissimo. Lo dimostra la sequenza in cui il dottor Guazzelli della Croce Rossa Italiana non riesce a portare i medicinali da Bassora a Bagdad perché i posti di blocco Usa lo impediscono. Il poeta si infuria, se il materiale non arriva la sua Vittoria rischia di morire («ma come non fanno passare la Croce Rossa...»). Il dottore conferma, comprensivo: «Non ci fanno passare... ma avranno le loro ragioni». Punto. L’unico sarcasmo contro la politica americana, volendolo cercare con assiduità e passione, è quando il personaggio di Benigni trova finalmente uno scacciamosche per uccidere gli insetti nel sottoscala d’ospedale dov’è ricoverata la sua amata: «L’arma di distruzione di massa l’ho trovata io!».

Il medico iracheno, di fronte all’ingovernabilità del suo ospedale, non se la prende con gli occupanti. Anzi: «Gli americani ci avevano promesso una vigilanza. Speriamo che arrivino presto». Punto. Considerazioni neutre, digeribilissime anche per il pubblico americano, che presto verrà
raggiunto dalla distribuzione.

Per il resto, il film abbonda di slogan pacifisti, soprattutto dei più tradizionali. Il poeta iracheno Fuad decide di lasciare l’Europa per rientrare in patria a dice: «Torno a Bagdad per questa guerra inutile. Speriamo finisca al più presto». Oppure: «Solo una guerra perduta è più brutta di una guerra vinta». Ancora. Gli studenti occupano un’università. Un professore apostrofa i ragazzi che stanno per avvolgere la facciata dell’ateneo con il drappo pacifista: «Ma è un’occupazione, è una cosa violenta!». Risposta: «E’ la guerra ad essere violenta. La bandiera della pace non ha mai fatto male a nessuno». Ma il bastone della bandiera cade sulla testa del poeta-professore. E tutti ridono molto.

Fonte Corriere.it


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