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Si può davvero diventare presidente Usa e assolvere due mandati con grande successo per il fatto di essere un competitore energico, giovane, fascinoso, col sassofono tra le labbra.
Le memorie di Bill Clinton, acquistate a decine di migliaia dai lettori di Panorama, sono molto divertenti per chi ami ispezionare i segreti e i segretucci del potere. Il New York Times le ha stroncate parlando di un pasticcio, ma avrebbe potuto dir meglio «pastiche», con un po' di ironia. La vera morale del libro, per il lettore smaliziato, è che un uomo politico non mente mai così chiaramente come quando chiede scusa per le sue bugie.
La storia clou la conosciamo tutti, gli amorazzi con una stagista della Casa Bianca, lo Studio Ovale trasformato da mitica cattedra della democrazia presidenziale in bordello di passaggio per lo sfizio ormonale del baby boomer, la menzogna pubblica durata dieci mesi («Non ho mai fatto sesso con quella donna»), la catarsi e il pentimento e la battaglia per restare in sella, vinta con molti acciacchi da un presidente che poteva vantare il più lungo e fortunato ciclo economico da decenni. Ma per quante bugie abbia potuto propinare Clinton alla famiglia, alla nazione e all'amministrazione, oltre che al Congresso e al giudice Kenneth Starr, la più solenne delle manipolazioni è consegnata ora al libro miliardario che racconta la storia a cose fatte: con Monica il povero Bill, figlioccio di un alcolizzato che picchiava sua madre, ha soggiaciuto a demoni del suo profondo, che lo hanno travolto (per meglio preparare la redenzione mediante la colpa, s'immagina).
Balle. Dal libro stesso si capisce che Bill era semplicemente un donnaiolo, come si dice con termine buffo e arcaizzante, e che tutti lo sapevano, e quando si era affacciato alla ribalta della candidatura presidenziale gli occhiuti e antipatici repubblicani dell'epoca lo avevano gridato ai quattro venti, che quel «womanizer» con i suoi demoni giocava ai quattro cantoni da una vita. Si capisce che la legge del potere, come onestamente ha ammesso Bill, è che tendi a fare quel che è in tuo potere di fare, anche come capufficio di una giovane impiegata, e che ci dovrebbe essere un modo migliore, sul piano dello stile anche privato, per godersi i privilegi di una bella e vivace sessualità.
Il mitico John Kennedy non si comportava troppo diversamente, a parte un certo maggior glamour nella scelta delle sue prede, e ci deve essere un curioso rapporto tra le bellurie retoriche della nuova frontiera, in cui anche Clinton era espertissimo, e lo spirito godereccio di una classe dirigente che si piace nel solco della leggerezza progressista e della devozione per l'umanità buona e sempre in cammino.
Un'altra morale del libro è che il sistema è forte, e i percorsi politici personali nel sistema sono parecchio casuali, si può davvero diventare presidenti e assolvere due mandati di successo politico, salvo pegni anche gravosi lasciati in eredità ai successori, per il fatto di essere il competitore energico, giovane, fascinoso, con il linguaggio del corpo vincente e il sassofono sempre alle labbra, di un presidente stanco, invecchiato, che affronta un ciclo economico sfavorevole. Ma in ogni presidente americano, quale che sia la sua machiavelliana dose di Fortuna, donna che aiuta e che un po' di Virtù aiuta a emergere, c'è la legge impersonale di un potere e di convenzioni e usi solidissimi, staff straordinari, un bilanciamento dei poteri che ti mette sul binario giusto anche se di tuo potresti deragliare a ogni istante: insomma, non sono i presidenti che fanno l'America, è l'America che fa i presidenti.
Di casi politici interessanti ce n'è almeno un paio. Di Oslo e dell'accordo Rabin-Arafat il presidente americano viene a sapere da una telefonata del primo ministro israeliano a cose fatte, il suo modesto ma gratificante compito è organizzare la cerimonia nel prato della Casa Bianca e sponsorizzare la celebre e svogliata stretta di mano. Quando invece la mediazione è affidata a lui, fallisce clamorosamente: come avvenne a Camp David. Non perché sia un incapace, bensì perché il Medio Oriente è materia intrattabile, non è roba per pesi leggeri, se non ci sia un pieno coinvolgimento nel fattore militare e della forza. Una guerra vera. In Kosovo, poi, riemerge la versione che Massimo D'Alema aveva contraffatta nell'intervista guerrafondaia, ma con riserva, a Federico Rampini. D'Alema aveva detto che Slobodan Milosevic si era arreso quando aveva capito che la Nato non avrebbe mai inviato truppe di terra, Clinton torna a smentire la sua versione e ribadisce che la resa del dittatore nazional-comunista fu fatto compiuto quando invece la Nato e gli americani stavano pensando a chiudere la campagna dei bombardamenti con l'invasione.
Ma non è la politica la regina di una presidenza curiosa, caotica, disordinata, in cui in realtà il bello e il cattivo tempo lo fecero i repubblicani poi sconfitti alla Newt Gingrich, e il lascito liberista dei Reagan e dei Bush padre che si saldò alla crescita impetuosa della «nuova economia» del web e del software. Clinton combinò poco, assecondò la sua fortuna, fu popolare perché le cose andavano bene senza di lui e malgrado lui. Da come si racconta si capisce che è andata così.
di Giuliano Ferrara
5/7/2004
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