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A Bologna i quadri-emblema in una grande retrospettiva



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BOLOGNA
Pochi giorni prima di morire, all’amico-stampella d’una vita, Roberto Longhi, proprio come Hukosai, che solo varcando i cent’anni avrebbe previsto d’incominciare a capire che cos’era dipingere: «Se sapesse, caro Longhi, quanta voglia ho di lavorare». Sempre un lei rispettoso e caldo, come uno dei suoi sfondi color di bile: «Ho delle idee nuove che vorrei svolgere...». Come uno scolaro diligente che «svolge» apprensivo il suo componimento (e teme un poco la maestra di tutte le Avanguardie) ovvero una linda casalinga, che ripone i suoi panni, odorosi di fiducia e sapone di Marsiglia. Secondo una «traiettoria ben tesa», suggeriva ancora Longhi: e le sue opere, spesso, danno quest’impressione candida d’essere appese umide e vive all’orizzonte labile del filo di bucato della Storia, che non lo inquietava («Necessità di abbandonarmi interamente al mio istinto, fidando nelle mie forze e dimenticando nell’operare ogni concetto stilistico preformato»: che è quello che poi i gendarmi del Moderno, sordi al tessuto vero dell’arte, gli han sempre rimproverato). Palpabile anche nella bellissima mostra di Bologna, che si può visionare come un loop cinematografico, che riprende ogni volta da capo: eterno, incantato ritornello ipnotico. Ouroburo che trascina, nella sua danza sopitamente dionisiaca (Morandi scivola sempre vellutato verso un suo maelstrom profondo e desolato, se pure spalmato di rosa salmone-dentario, in emersione. Verso un abisso gentile, che ha tinte pastello: nichilismo stemperato al rosolio, nel noto clima sororale, pascoliano. Ma sempre pronto a morderti, come in quelle Nature Morte estreme, del '62, armate, arcigne, ove le brocche dal becco volitivo si fronteggiamo come rostri araldici, ariosteschi, di peltro. Non c’è pace, tra le sue bottiglie).

Certo, abbiam incominciato dal fondo, dal morire: quando incomincia a mandar flebili segnali dall’al di là della pittura, mentre il fiato incerto e pudoroso delle forme trasognate ed ora consunte (come decorosi paletot troppe volte rivoltati, per parsimonia) «toccano» la pelle del foglio e la guancia d’una tela, quasi con timore e riserbo. Con riluttanza a stanziarsi e cementare. Polpastrello mentale ed immateriato, pronto a ridecollare angelicatamente verso la nuvolaglia cedevole delle larve, che non han più forma e respirano su, nel cielo livido dei Possibili. Cineseria senza chinoiserie settecentesca e cicisbea (semmai la colazione sobria di Chardin e Diderot). Giapponeria senza japonisme, mai, per carità, galante od orientalista: Morandi è il più spartano dei commercianti di segni il suo è un perenne invito al vuoto, al risparmio delle «forme», nel senso anche delle smancerie liriche. È poeta senza «poesia»: le sue scatoline, succhiate a sangue come bon bon scaduti od ossi di seppia, ma poco ermetici, conservano però la monumentalità rappresa d’una cupola romanica. I suoi «versi», scanditi in un sillabato magico sono veri haiku padani (né è un caso che il primo a dimostrarsene sensibile fu Bacchelli). Gli acquerelli ultimi, quasi postumi, sono sussurri privati, non opere pubbliche: ma è giusto mescerli accanto agli olii, come le radissime incisioni, per mostrare quanto le sue prime e ultime pennellate conservino questo segno scabro, da bisturi, che tormenta e cura il bubbone. A pioggia battente. Morandi vede il colore, come l’amato Seurat, attraverso un bianco e nero mentale, burrascoso e redento: le cose come pretesto. Di nuovo al mondo non c’è nulla o pochissimo, l’importante è la posizione diversa e nuova, in cui un artista si trova a considerare le cose della cosiddetta natura.

L’intuizione giusta dei curatori, Bandera e Miracco, è di mostrare soprattutto quadri-emblema, che furono donati ai suoi esegeti insuperabili (Longhi, Arcangeli, Brandi). Oppure acquisiti e non per status mondano, da uomini di cinema, come Antonioni, Zurlini, Zavattini, che ne succhiarono il fascino metrico-scenografico. Fellini lo volle come sfondo d’interno emblematico, per la Dolce Vita. Ragghianti ebbe in dono («la conservi lei», una Natura Morta, che il gran sartore Morandi aveva sforbiciato bruciantemente in alto, per dar più aria e sfogo al suo variato sky line di bottiglie dal collo impiccato).

Eppure di nuovo c’è qui un importante scambio simbolico, non soltanto perché Morandi torna vincitore dal Metropolitan, simbolo doc di modernità, ma perchè entra a pieno diritto in un museo d'arte contemporanea, dopo tutta la flottiglia (altro che bottiglie tutte eguali!) di scemenze, che i paladini del Nuovo gli avevan riservato. Subito nauseato dal futurismo demolitore, il costruttivista Morandi «entra» nella Metafisica, pur senza amare enigmi, spaesamenti, surrealtà. Bene dice De Chirico: «metafisica degli oggetti più comuni», che è quasi un controsenso visivo. La sua metafisica è domestica, sapore di cassetto e stufato: tenere in equilibrio modanature di letto e pipette da luna park. I manichini hanno al collo nastrini casalinghi. Sospeso in aria: prestidigitazione infantile. In fondo, vibrando come una scortese viola d'amore, per tutta la vita, egli ha tenuto acrobaticamente in aria (questo medium decisivo per la sua luce) un fiato di mondo. Spettri d’immagine. Polvere magnifica.




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