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le poesie di Gabriele D'Annunzio

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    Ecco qua tutte le poesie di D'Annunzio Gabriele

    Beatitudine

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    "Color di perla quasi informa, quale
    conviene a donna aver, non fuor misura".
    Non è, Dante, tua donna che in figura
    della rorida Sera a noi discende?

    Non è non è dal ciel Betarice
    discesa in terra a noi
    bagnata il viso di pianto d'amore?
    Ella col lacrimar degli occhi suoi
    tocca tutte le spiche
    a una a una e cangia lor colore.
    Stanno come persone
    inginocchiate elle dinanzi a lei,
    a capo chino, umíli; e par si bei
    ciascuna del martiro che l'attende.

    Vince il silenzio i movimenti umani.
    Nell'aerea chiostra
    dei poggi l'Arno pallido s'inciela.
    Ascosa la Città di sé non mostra
    se non due steli alzati,
    torre d'imperio e torre di preghiera,
    a noi dolce com'era
    al cittadin suo prima dell'esiglio
    quand'ei tenendo nella mano un giglio
    chinava il viso tra le rosse bende.

    Color di perla per ovunque spazia
    e il ciel tanto è vicino
    che ogni pensier vi nasce come un'ala.
    La terra sciolta s'è nell'infinito
    sorriso che la sazia,
    e da noi lentamente s'allontana
    mentre l'Angelo chiama
    e dice:"Sire, nel mondo si vede
    meraviglia nell'atto, che procede
    da un'anima, che fin quassù risplende".
    [Modificato da Quetzalopatrius. 05/06/2008 22:11]


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    Furit aestus

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    Un falco stride nel color di perla:
    tutto il cielo si squarcia come un velo.
    O brivido su i mari taciturni,
    o soffio, indizio del súbito nembo!
    O sangue mio come i mari d'estate!
    La forza annoda tutte le radici:
    sotto la terra sta, nascosta e immensa.
    La pietra brilla più d'ogni altra inerzia.

    La luce copre abissi di silenzio,
    simile ad occhio immobile che celi
    moltitudini folli di desiri.
    L'Ignoto viene a me, l'Ignoto attendo!
    Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.
    Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.
    T'amo, o tagliente pietra che su l'erta
    brilli pronta a ferire il nudo piede.

    Mia dira sete, tu mi sei più cara
    che tutte le dolci acque dei ruscelli.
    Abita nella mia selvaggia pace
    la febbre come dentro le paludi.
    Pieno di grida è il riposato petto.
    L'ora è giunta, o mia Mèsse, l'ora è giunta!
    Terribile nel cuore del meriggio
    pesa, o Mèsse, la tua maturità.


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    Il Fanciullo

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    I.

    Figlio della Cicala e dell'Olivo,
    nell'orto di quel Fauno
    tu cogliesti la canna pel tuo flauto,
    pel tuo sufolo doppio a sette fóri?

    In quel che ha il nume agresto entro un'antica
    villa di Camerata
    deserta per la morte di Pampínea?
    O forse lungo l'Affrico che riga
    la pallida contrada
    ove i campi il cipresso han per confine?
    Più presso, nella Mensola che ride
    sotto il ponte selvaggia?
    Più lungi, ove l'Ombron segue la traccia
    d'Ambra e Lorenzo canta i vani ardori?

    Ma il mio pensier mi finge che tu colta
    l'abbia tra quelle mura
    che Arno parte, negli Orti Oricellari,
    ove dalla barbarie fu sepolta
    ahi sì trista, la Musa
    Fiorenza che cantò ne' dì lontani
    ai lauri insigni, ai chiari
    fonti, all'eco dell'inclite caverne,
    quando di Grecia le Sirene eterne
    venner con Plato alla Città dei Fiori.

    Te certo vide Luca della Robbia,
    ti mirò Donatello,
    operando le belle cantoríe.
    Tutte le frutta della Cornucopia
    per forza di scalpello
    fecero onuste le ghirlande pie.
    E tu danzavi le tue melodie,
    nudo fanciul pagano,
    àlacre nel divin marmo apuano
    come nell'aria, conducendo i cori.

    Figlio della Cicala e dell'Olivo,
    or col tuo sufoletto
    incanti la lucertola verdognola
    a cui sopra la selce il fianco vivo
    palpita pel diletto
    in misura seguendo il dolce suono.
    Non tu conosci il sogno
    forse della silente creatura?
    Ver lei ti pieghi: in lei non è paura:
    tu moduli secondo i suoi colori.

    Tu moduli secondo l'aura e l'ombra
    e l'acqua e il ramoscello
    e la spica e la man dell'uom che falcia,
    secondo il bianco vol della colomba,
    la grazia del torello
    che di repente pavido s'inarca,
    la nuvola che varca
    il colle qual pensier che seren volto
    muti, l'amore della vite all'olmo
    l'arte dell'ape, il flutto degli odori.

    Ogni voce in tuo suono si ritrova
    e in ogni voce sei
    sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.
    Par quasi che tu sol le cose muova
    mentre solo ti bei
    nell'obbedire ai movimenti eterni.
    Tutto ignori, e discerni
    tutte le verità che l'ombra asconde.
    Se interroghi la terra, il ciel risponde;
    se favelli con l'acque, odono i fiori.

    O fiore innumerevole di tutta
    la vita bella, umano
    fiore della divina arte innocente,
    preghiamo che la nostra anima nuda
    si miri in te, preghiamo
    che assempri te maravigliosamente!
    L'immensa plenitudine vivente
    trema nel lieve suono
    creato dal virgineo tuo soffio,
    e l'uom cò suoi fervori e i suoi dolori.

    II.

    Or la tua melodia
    tutta la valle come un bel pensiere
    di pace crea, le due canne leggiere
    versando una la luce ed una l'ombra.

    La spiga che s'inclina
    per offerirsi all'uomo
    e il monte che gli dà pietre del grembo,
    se ben l'una vicina
    e l'altro sia rimoto
    e l'una esigua e l'altro ingente, sembra
    si giungano per l'aere sereno
    come i tuoi labbri e le tue dolci canne,
    come su letto d'erbe amato e amante,
    come i tuoi diti snelli e i sette fóri,

    come il mare e le foci,
    come nell'ala chiare e negre penne,
    come il fior del leandro e le tue tempie,
    come il pampino e l'uva,
    come la fonte e l'urna,
    come la gronda e il nido della rondine,
    come l'argilla e il pollice,
    come ne' fiari tuoi la cera e il miele,
    come il fuoco e la stipula stridente,
    come il sentier e l'orma,
    come la luce ovunque tocca l'ombra.

    III.

    Sopor mi colse presso la fontana.
    Lo sciame era discorde:
    avea due re; pendea come due poppe
    fulve. E il rame s'udia come campana.

    Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente.
    Lottato avevi ignudo
    contro il torrente folle di rapina.
    Raccolto avevi piuma di sparviere
    che a sommo del ciel muto
    in sue rote feria l'aer di strida.
    Ahi, lungi dalle tue musiche dita
    gittato avevi i calami forati.
    Chino con sopraccigli corrugati
    eri, fanciul pugnace,
    intento a farti archi da saettare
    col legno della flèssile avellana.

    IV.

    Eleggere sapesti il re splendente
    nello sciame diviso,
    ridere d'un tuo bel selvaggio riso
    spegnendo il fuco sterile e sonoro.

    Con la man tinta in mele di sosillo
    traesti fuor la troppa
    signoria. Cauto e fermo le calcavi.
    Sporgeva a modo d'uvero di poppa
    il buon sire tranquillo
    che fu re delle artefici soavi.
    Poi franco te n'andavi
    sonando per le prata di trifoglio,
    incoronato d'ellera e d'orgoglio,
    entro la nube delle pecchie d'oro.

    V.

    L'acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli
    fecesi occhio che vede e che sorride;
    fecesi chioma su la tua cervice
    il crespo capelvenere.

    Fatto sei di segreto e di freschezza.
    Fatte son di làtice
    fluido e d'umide fibre le tue membra.
    Il tuo spirto, dal fonte come il salice
    ma senza l'amarezza
    nato, le amiche naiadi rimembra;
    tutte le polle sembra
    trarre per le invisibili sue stirpi.
    E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,
    ha neri gambi il verde capelvenere.

    Converse le tue canne sono in chiari
    vetri, onde lenti i suoni
    stillano come gocce da clessidre.
    S'appressano i colúbri maculosi,
    gli aspidi i cencri e gli angui
    e le ceraste e le verdissime idre.

    Taciti, senza spire,
    eretti i serpi bevono l'incanto.
    Sol le bífide lingue a quando a quando
    tremano come trema il capelvenere.

    Sino ai ginocchi immerso nella cupa
    linfa, alla venenata
    greggia tu moduli il tuo lento carme.
    Par che da' piedi tuoi torta sia nata
    radice e di natura
    erbida par ti sien fatte le gambe.
    Ma il fior della tua carne
    suso come il nénufaro s'ingiglia.
    E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia,
    neri ha gli steli il verde capelvenere.

    VI.

    Se t'è l'acqua visibile negli occhi
    e se il làtice nudre le tue carni,
    viver puoi anco ne' perfetti marmi
    e la colonna dorica abitare.

    Natura ed Arte sono un dio bifronte
    che conduce il tuo passo armonioso
    per tutti i campi della Terra pura.
    Tu non distingui l'un dall'altro volto
    ma pulsare odi il cuor che si nasconde
    unico nella duplice figura.
    O ignuda creatura,
    teco salir la rupe veneranda
    voglio, teco offerire una ghirlanda
    del nostro ulivo a quell'eterno altare.

    Torna con me nell'Ellade scolpita
    ove la pietra è figlia della luce
    e sostanza dell'aere è il pensiere.
    Navigando nell'alta notte illune,
    noi vedremo rilucere la riva
    del diurno fulgor ch'ella ritiene.
    Stamperai nelle arene
    del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli
    presso Colòno udremo gli usignuoli
    di Sofocle ad Antigone cantare.

    Vedremo nei Propílei le porte
    del Giorno aperte, nell'intercolumnio
    tutto il cielo dell'Attica gioire;
    nel tempio d'Erettèo, coro notturno
    dai negricanti pepli le sopposte
    vergini stare come urne votive;
    la potenza sublime
    della Citta, transfusa in ogni vena
    del vital marmo ov'è presente Atena,
    regnar col ritmo il ciel la terra il mare.

    Alcun arbore mai non t'avrà dato
    gioia sì come la colonna intatta
    che serba i raggi ne' suoi solchi eguali.
    All'ora quando l'ombra sua trapassa
    i gradi, tu t'assiderai sul grado
    più alto, cò tuoi calami toscani.
    La Vittoria senz'ali
    forse t'udrà, spoglia d'avorio e d'oro;
    e quella alata che raffrèna il toro;
    e quella che dislaccia il suo calzare.

    Taci! La cima della gioia è attinta.
    Guarda il Parnete al ciel, come leggiero!
    Guarda l'Imetto roscido di miele!
    Flessibile m'appar come l'efebo,
    vestito della clamide succinta,
    che cavalcò nelle Panatenee.
    Sorse dall'acque egee
    il bel monte dell'api e fu vivente.
    Or tuttavia nella sua forma ei sente
    la vita delle belle acque ondeggiare.

    Seno d'Egina! Oh isola nutrice
    di colombe e d'eroi! Pallida via
    d'Eleusi coi vestigi di Demetra!
    Splendore della duplice ferita
    nel fianco del Pentelico! Armonie
    del glauco olivo e della bianca pietra!
    Ogni golfo è una cetra.
    Tu taci, aulete, e ascolti. Per l'Imetto
    l'ombra si spande. Il monte violetto
    mormora e odora come un alveare.

    VII.

    L'odo fuggir tra gli arcipressi foschi,
    e l'ansia il cor mi punge.
    Ei mi chiama di lunge
    solo negli alti boschi, e s'allontana.

    Mutato è il suon delle sue dolci canne.
    Trèmane il cor che l'ode,
    balza se sotto il pièstrida l'arbusto;
    pavido è fatto al rombo del suo sangue,
    ed altro più non ode
    il cor presàgo di remoto lutto.
    Prego: "O fanciul venusto,
    non esser sì veloce
    ch'io non ti giunga!" E' vana la mia voce.
    Melodiosamente ei s'allontana.

    Elci nereggian dopo gli arcipressi,
    antiqui arbori cavi.
    Pascono suso in ciel nuvole bianche.
    A quando a quando tra gli intrichi spessi
    le nuvole soavi
    son come prede tra selvagge branche.
    E sempre odo le canne
    gemere d'ombra in ombra
    roche quasi richiamo di colomba
    che va di ramo in ramo e s'allontana.

    "O fanciullo fuggevole, t'arresta!
    Tu non sai com'io t'ami,
    intimo fiore dell'anima mia.
    Una sol volta almen volgi la testa,
    se te la inghirlandai,
    bel figlio della mia melancolia!
    Con la tua melodia
    fugge quel che divino
    era venuto in me, quasi improvviso
    ritorno dell'infanzia più lontana.

    Fa che l'ultima volta io t'incoroni,
    pur di negro cipresso,
    e teco io sia nella dolente sera!"
    Ei nell'onda volubile dei suoni
    con un gentil suo gesto,
    simile a un spirto della primavera,
    volgesi; alla preghiera
    sorride, e non l'esaude.
    L'ansia mia vana odo sol tra le pause,
    mentre che d'ombra in ombra ei s'alontana.

    Ad un fonte m'abbatto che s'accoglie
    entro conca profonda
    per aver pace, e un elce gli fa notte.
    "O figlio, sosta! Imiterai le foglie
    e l'acque anche una volta
    e i silenzii del dì con le tue note.
    Sediamo in su le prode.
    Fa ch'io veda l'imagine
    puerile di te presso l'imagine
    di me nel cupo speglio!" Ei s'allontana.

    S'allontana melodiosamente
    nè più mi volge il viso,
    emulo di Favonio ei nel suo volo.
    Sol calando, la plaga d'occidente
    s'infiamma; e d'improvviso
    tutta la selva è fatta un vasto rogo.
    Le nuvole di foco
    ardono gli elci forti,
    aerie vergini al disio dei mostri.
    Giunge clangor di buccina lontana.

    E un tempio ecco apparire, alte ruine
    cui scindon le radici
    errabonde. Gli antichi iddii son vinti.
    Giaccion tronche le statue divine
    cadute dai fastigi;
    dormono in bruni pepli di corimbi.
    Lentischi e terebinti
    l'odor dei timiami
    fan loro intorno. "O figlio, se tu m'ami,
    sosta nel luogo santo!" Ei s'allontana.

    "Rialzerò le candide colonne,
    rialzerò l'altare
    e tu l'abiterai unico dio.
    M'odi: te l'ornerò con arti nuove.
    E non avrà l'eguale.
    Maraviglioso artefice son io.
    T'adorerò nel mio
    petto e nel tempio. M'odi,
    figlio! Che immortalmente io t'incoroni!"
    Nel gran fuoco del vespro ei s'allontana.

    Si dilegua ne' fiammei orizzonti
    Forse è fratel degli astri.
    O forse nel mio sogno s'è converso?
    "Ti cercherò, ti cercherò ne' monti,
    ti cercherò per gli aspri
    torrenti dove ti sarai deterso.
    E ti vedrò diverso!
    Gittato avrai le canne,
    intento a farti archi da saettare
    col legno della flèssile avellana".


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    L'aedo senza lira

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    Meco ragiona il veglio
    d'una spezie di pomi.
    E dice: "Nasce in arbore
    di mezzana statura, e fior bianchetto.
    La dolcezza del frutto
    è mista con asprezza.
    Non ricusa qualunque terra. I luoghi
    allegri ama bensì,dolce temperie.
    Dilettasi del mare.
    Il vento e il gelo teme.
    Innestar non si puote.
    Piccola etade dura.
    Serbansi i pomi in orci unti di pece.
    Anco serbansi in cave
    dell'oppio arbore; ovver tra la vinaccia
    in pentole, assai bene e lungamente".
    Così ragiona il veglio; ed in sue lente
    parole il cor si spazia
    come in un canto aonio.
    Risplende un'antichissima virtude,
    come nel prisco aedo
    che canta un fato illustre,
    o Terra, nel tuo bianco testimonio.
    Il soffio del suo petto
    paterno è come la bontà dell'aria
    che fa buona ogni cosa.
    La vita fruttuosa
    dell'arbore s'agguaglia
    alle sorti magnifiche dei regni.
    Ei parla, e tra due legni
    tesse la chiara paglia
    come l'aedo tende le sue corde,
    create cò minugi degli agnelli,
    tra i bracci della lira.
    Vento asolando, spira
    odor di meliloto il miel dall'ombra,
    colato nei mondissimi vaselli
    ove la man spremette i fiali pregni.
    Ei ragiona e travaglia;
    e il flavescente culmo non si spezza.
    A quando a quando mira
    come chi attenda segni.
    Ode sciame che romba.
    Ei parla di battaglia
    che han l'api in loro ostelli
    per signorie lor nuove.
    Gli luce nella barba e ne' capelli
    alcun filo di paglia
    che il suo parlar commuove.
    Al sole oro non è che tanto luca.
    Appesa alla sua bocca che s'immézza,
    presso l'aroma della sua saggezza,
    l'anima nostra è come la festuca.


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    L'opere e i giorni

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    O sposo della Terra venerando,
    è bello a sera noverare l'opre
    della dimane e misurar nel cuore
    meditabondo la durabil forza.
    Veglio, la tua parola su me piove
    candida come il fior del melo allora
    che già comincia ad allegare il frutto.
    Parlami, e dimmi quali sieno l'opre.
    "Di questo mese m'apparecchio l'aia.
    La mondo e sarchiellata lievemente
    la concio con la pula e con la morchia
    sicché difenda la biada da topi
    e da formiche e d'altra gente infesta.
    E poi la piano con la pietra tonda,
    o con legno; o pur suvvi spargo l'acqua
    e suvvi metto le mie bestie, e bene
    cò piedi lor la faccio rassodare;
    e poi si secca al sole" il veglio dice.
    E sta su la sua soglia rinnovata
    di quella pietra ch'è detta serena
    (nasce del Monte Céceri in gran copia)
    schietta pietra, pendente nell'azzurro
    alquanto, di color d'acqua piovana
    ove cotta la foglia sia del glastro.
    E dietro la sua faccia, che la grande
    etade arò con invisibil vomere
    sì che raggia di curvi e retti solchi
    qual iugero già pronto alla sementa,
    sale su per lo stipite di pietra
    il bianco gelsomin grato alle pecchie,
    eguale di candore al crin canuto.
    "Di questo mese nel solstizio, quando
    il Sol non puote più salire, semino
    le brasche; le quà poi di mezzo agosto
    trapiantar mi bisogna in luogo irriguo.
    E la bietola e l'appio e il coriandro
    e la lattuga semino, ed innacquo.
    Colgo la veccia, e sego per pastura
    il fien greco. La fava anzi la luce
    vello, scemante la luna; la fava,
    anzi che compia lo scemar la luna,
    batto; e refrigerata la ripongo.
    Di questo mese inocchio il pesco, impiastro
    il fico, vòto l'arnia, il condottiero
    eleggo nel gomitolo dell'api.
    E prossima si fa la mietitura
    dell'orzo, la qual compiere mi giova
    anzi che mi comincino a cascare
    le spighe, imperocché non son vestite
    sue granella di foglie, come il grano.
    Da giovine sei moggia il dì potei
    segarne!" sorridendo il veglio dice.
    Ancora armata è la gengiva, salda
    nel suo sorriso e nella sua favella.
    E non pur gli vacillano i ginocchi,
    se ben la falce nell'oprare gli abbia
    a simiglianza sel suo ferro istesso
    curve le gambe. E sopra il santo petto
    il lin rude, che l'indaco fè quasi
    celeste, crea misteriosamente
    l'imagine di Pan duce degli astri,
    cui nel torace si rispecchia il Cielo.


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    L'ulivo

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    Laudato sia l'ulivo nel mattino!
    Una ghirlanda semplice, una bianca
    tunica, una preghiera armoniosa
    a noi son festa.

    Chiaro leggero è l'arbore nell'aria
    E perché l'imo cor la sua bellezza
    ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,
    non sa l'ulivo.

    Esili foglie, magri rami, cavo
    tronco, distorte barbe, piccol frutto,
    ecco, e un nume ineffabile risplende
    nel suo pallore!

    O sorella, comandano gli Ellèni
    quando piantar vuolsi l'ulivo, o côrre,
    che 'l facciano i fanciulli della terra
    vergini e mondi,

    imperocché la castitate sia
    prelata di quell'arbore palladio
    e assai gli noccia mano impura e tristo
    alito il perda.

    Tu nel tuo sonno hai valicato l'acque
    lustrali, inceduto hai su l'asfodelo
    senza piegarlo; e degna al casto ulivo
    ora t'appressi.

    Biancovestita come la Vittoria,
    alto raccolta intorno al capo il crine,
    premendo con piede àlacre la gleba,
    a lui t'appressi.

    L'aura move la tunica fluente
    che numerosa ferve, come schiume
    su la marina cui l'ulivo arride
    senza vederla.

    Nuda le braccia come la Vittoria,
    sul flessibile sandalo ti levi
    a giugnere il men folto ramoscello
    per la ghirlanda.

    Tenue serto a noi,di poca fronda,
    è bastevole: tal che d'alcun peso
    non gravi i bei pensieri mattutini
    e d'alcuna ombra.

    O dolce Luce, gioventù dell'aria,
    giustizia incorruttibile, divina
    nudità delle cose, o Animatrice,
    in noi discendi!

    Tocca l'anima nostra come tocchi
    il casto ulivo in tutte le sue foglie;
    e non sia parte in lei che tu non veda,
    Onniveggente!


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    La sera fiesolana

    1899 - Gabriele D'Annunzio

    Fresche le mie parole ne la sera
    ti sien come il fruscío che fan le foglie
    del gelso ne la man di chi le coglie
    silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
    su l'alta scala che s'annera
    contro il fusto che s'inargenta
    con le sue rame spoglie
    mentre la Luna è prossima a le soglie
    cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
    ove il nostro sogno si giace
    e par che la campagna già si senta
    da lei sommersa nel notturno gelo
    e da lei beva la sperata pace
    senza vederla.

    Laudata sii pel tuo viso di perla,
    o Sera, e pè tuoi grandi umidi occhi ove si tace
    l'acqua del cielo!

    Dolci le mie parole ne la sera
    ti sien come la pioggia che bruiva
    tepida e fuggitiva,
    commiato lacrimoso de la primavera,
    su i gelsi e su gli olmi e su le viti
    e su i pini dai novelli rosei diti
    che giocano con l'aura che si perde,
    e su 'l grano che non è biondo ancóra
    e non è verde,
    e su 'l fieno che già patì la falce
    e trascolora,
    e su gli olivi, su i fratelli olivi
    che fan di santità pallidi i clivi
    e sorridenti.

    Laudata sii per le tue vesti aulenti,
    o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
    il fien che odora!

    Io ti dirò verso quali reami
    d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
    eterne e l'ombra de gli antichi rami
    parlano nel mistero sacro dei monti;
    e ti dirò per qual segreto
    le colline su i limpidi orizzonti
    s'incúrvino come labbra che un divieto
    chiuda, e perché la volontà di dire
    le faccia belle
    oltre ogni uman desire
    e nel silenzio lor sempre novelle
    consolatrici, sì che pare
    che ogni sera l'anima le possa amare
    d'amor più forte.

    Laudata sii per la tua pura morte
    o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
    le prime stelle!


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    La spica

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    Laudata sia la spica nel meriggio!
    Ella s'inclina al Sole che la cuoce,
    verso la terra onde umida erba nacque;
    s'inclina e più s'inclinerà domane
    verso la terra ove sarà colcata
    col gioglio ch'è il malvagio suo fratello,
    con la vena selvaggia
    col cíano cilestro
    col papavero ardente
    cui l'uom non seminò, in un mannello.

    E' di tal purità che pare immune,
    sol nata perché l'occhio uman la miri;
    di sì bella ordinanza che par forte.
    Le sue granella sono ripartite
    con la bella ordinanza che c'insegna
    il velo della nostra madre Vesta.
    Tre son per banda alterne;
    minore è il granel medio;
    ciascuno ha la sua pula;
    d'una squammetta nasce la sua resta.

    Matura anco non è. Verde è la resta
    dove ha il suo nascimento dalla squamma,
    però tutt'oro ha la pungente cima.
    E verdi lembi ha la già secca spoglia
    ove il granello a poco a poco indura
    ed assume il color della focaia.
    E verdeggia il fistuco
    di pallido verdore
    ma la stípula è bionda.
    S'odon le bestie rassodare l'aia.

    Dice il veglio: "Nè luoghi maremmani
    già gli uomini cominciano segare.
    E in alcuna contrada hanno abbicato.
    Tu non comincerai, se tu non veda
    tutto il popolo eguale della mèsse
    egualmente risplender di rossore".
    E la spica s'arrossa.
    Brilla il fil della falce,
    negreggia il rimanente,
    di stoppia incenerita è il suo colore.

    E prima la sudata mano e poi
    il ferro sentirànel suo fistuco
    la spica; e in lei saran le sue granella,
    in lei saràla candida farina
    che la pasta farà molto tegnente
    e farà pane che molto ricresce.
    Ma la vena selvaggia
    ma il cíano cilestro
    ma il papavero ardente
    con lei cadranno, ahi, vani su le secce.

    E la vena pilosa, or quasi bianca,
    è tutta lume e levità di grazia;
    e il cíano rassembra santamente
    gli occhi cesii di Palla madre nostra;
    e il papavero è come il giovenile
    sangue che per ispada spiccia forte;
    e tutti sono belli
    belli sono e felici
    e nel giorno innocenti;
    e l'uom non si dorrà di loro sorte.

    E saranno calpesti e della dolce
    suora, che tanto amarono vicina,
    che sonar per le reste quasi esigua
    cítara al vento udirono, disgiunti;
    e sparsi moriran senza compianto
    perché non danno il pane che nutrica.
    Ma la vena selvaggia
    e il cíano cilestro
    e il papavero ardente
    laudati sien da noi come la spica!


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    00 05/06/2008 22:17
    La tenzone

    Gabriele D'Annunzio

    O Marina di Pisa, quando folgora
    il solleone!
    Le lodolette cantan su le pratora
    di San Rossore
    e le cicale cantano su i platani
    d'Arno a tenzone.

    Come l'Estate porta l'oro in bocca,
    l'Arno porta il silenzio alla sua foce.
    Tutto il mattino per la dolce landa
    quinci è un cantare e quindi altro cantare;
    tace l'acqua tra l'una e l'altra voce.
    E l'Estate or si china da una banda
    or dall'altra si piega ad ascoltare.
    E' lento il fiume, il naviglio è veloce.
    La riva è pura come una ghirlanda.
    Tu ridi tuttavia cò raggi in bocca,
    come l'Estate a me, come l'Estate!
    Sopra di noi sono le vele bianche
    sopra di noi le vele immacolate.
    Il vento che le tocca
    tocca anche le tue palpebre un po' stanche,
    tocca anche le tue vene delicate;
    e un divino sopor ti persuade,
    fresco ne' cigli tuoi come rugiade
    in erbe all'albeggiare.
    S'inazzurra il tuo sangue come il mare.
    L'anima tua di pace s'inghirlanda.
    L'Arno porta il silenzio alla sua foce
    come l'Estate porta l'oro in bocca.
    Stormi d'augelli varcano la foce,
    poi tutte l'ali bagnano nel mare!
    Ogni passato mal nell'oblio cade.
    S'estingue ogni desio vano e feroce.
    Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;
    quello che mi toccò, più non mi tocca.
    E' paga nel mio cuore ogni dimanda,
    come l'acqua tra l'una e l'altra voce.
    Così discendo al mare;
    così veleggio. E per la dolce landa
    quinci è un cantare e quindi altro cantare.

    Le lodolette cantan su le pratora
    di San Rossore
    e le cicale cantano su i platani
    d'Arno a tenzone.


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    La tregua

    1902 - Gabriele D'Annunzio

    Dèspota, andammo e combattemmo, sempre
    fedeli al tuo comandamento. Vedi
    che l'armi e i polsi eran di buone tempre.

    O magnanimo Dèspota, concedi
    al buon combattitor l'ombra del lauro,
    ch'ei senta l'erba sotto i nudi piedi,

    ch'ei consacri il suo bel cavallo sauro
    alla forza dei Fiumi e in su l'aurora
    ei conosca la gioia del Centauro.

    O Dèspota, ei sarà giovine ancóra!
    Dàgli le rive i boschi i prati i monti
    i cieli, ed ei sarà giovine ancóra

    Deterso d'ogni umano lezzo in fonti
    gelidi, ei chiederà per la sua festa
    sol l'anello degli ultimi orizzonti

    I vènti e i raggi tesseran la vesta
    nova, e la carne scevra d'ogni male
    éntrovi balzerà leggera e presta.

    Tu 'l sai: per t'obbedire, o Trionfale,
    sí lungamente fummo a oste, franchi
    e duri; né il cor disse mai "Che vale?"

    disperato di vincere; né stanchi
    mai apparimmo, né mai tristi o incerti,
    ché il tuo volere ci fasciava i fianchi.

    O Maestro, tu 'l sai: fu per piacerti.
    Ma greve era l'umano lezzo ed era
    vile talor come di mandre inerti;

    e la turba faceva una Chimera
    opaca e obesa che putiva forte
    sí che stretta era all'afa la gorgiera.

    Gli aspetti della Vita e della Morte
    invano balenavan sul carname
    folto, e gli enimmi dell'oscura sorte.

    Non era pane a quella bassa fame
    la bellezza terribile; onde il tardo
    bruto mugghiava irato sul suo strame.

    Pur, lieta maraviglia, se alcun dardo
    tutt'oro gli giungea diritto insino
    ai precordii, oh il suo fremito gagliardo!

    E tu dicevi in noi: "Quel ch'è divino
    si sveglierà nel faticoso mostro.
    Bàttigli in fronte il novo suo destino".

    E noi perseverammo, col cuor nostro
    ardente, per piacerti, o Imperatore;
    e su noi non potè ugna nè rostro.

    Ma ne sorse per mezzo al chiuso ardore
    la vena inestinguibile e gioconda
    del riso, che sonò come clangore.

    E ad ogni ingiuria della bestia immonda
    scaturiva più vivido e più schietto
    tal cristallo dall'anima profonda.

    Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto,
    sfumato con le miche del convito,
    lungi rauco latrava il suo dispetto;

    e l'obliqio lenone, imputridito
    nel vizio suo, dal lubrico angiporto
    con abominio ci segnava a dito.

    O Dèspota, tu dài questo conforto
    al cuor possente, cui l'oltraggio èlode
    e assillo di virtù ricever torto.

    Ei nella solitudine si gode
    sentendo sé come inesausto fonte
    Dedica l'opre al Tempo; e ciò non ode.

    Ammonisti l'alunno: "Se hai man pronte,
    non iscegliere i vermini nel fimo
    ma strozza i serpi di Laocoonte".

    Ed ei seguì l'ammonimento primo;
    restò fedele ai tuoi comandamenti;
    fiso fu ne' tuoi segni a sommo e ad imo.

    Dèspota, or tu concedigli che allenti
    il nervo ed abbandoni gli ebri spirti
    alle voraci melodíe dei vènti!

    Assai si travagliò per obbedirti.
    Scorse gli Eroi su i prati d'asfodelo.
    Or ode i Fauni ridere tra i mirti.

    l'Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo.


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    00 05/06/2008 22:18
    Lungo l'affrico

    Gabriele D'Annunzio

    Grazia del ciel, come soavemente
    ti miri ne la terra abbeverata,
    anima fatta bella dal suo pianto!
    O in mille e mille specchi sorridente
    grazia, che da nuvola sei nata
    come la voluttà nasce dal pianto,
    musica nel mio canto
    ota t'effondi, che non è fugace,
    per me trasfigurata in alta pace
    a chi l'ascolti.

    Nascente Luna, in cielo esigua come
    il sopracciglio de la giovinetta
    e la midolla de la nova canna,
    sì che il più lieve ramo ti nasconde
    e l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena
    ti ritrova, pel sogno che l'appanna,
    Luna, il rio che s'avvalla
    senza parola erboso anche ti vide;
    e per ogni fil d'erba ti sorride,
    solo a te sola.

    O nere e bianche rondini, tra notte
    e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere
    ospiti lungo l'Affrico notturno!
    Volan elle sì basso che la molle
    erba sfioran coi petti, e dal piacere
    il loro volo sembra fatto azzurro.
    Sopra non ha sussurro
    l'arbore grande, se ben trema sempre.
    Non tesse il volo intorno a le mie tempie
    fresche ghirlande?

    E non promette ogni lor breve grido
    un ben che forse il cuore ignora e forse
    indovina se udendo ne trasale?
    S'attardan quasi immemori del nido,
    e sul margine dove son trascorse
    par si prolunghi il fremito dell'ale.
    Tutta la terra pare
    argilla offerta all'opera d'amore,
    un nunzio il grido, e il vespero che muore
    un'alba certa.


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    00 05/06/2008 22:19
    Pace

    Gabriele D'Annunzio

    Pace, pace! La bella Simonetta
    adorna del fugace emerocàllide
    vagola senza scorta per le pallide
    ripe cantando nova ballatetta.
    Le colline s'incurvano leggiere
    come le onde del vento nella sabbia
    del mare e non fanno ombra, quasi d'aria.
    L'Arno favella con la bianca ghiaia,
    recando alle Nereidi tirrene
    il vel che vi bagnò forse la Grazia,
    forse il velo onde fascia
    la Grazia questa terra di Toscana
    escita della casalinga lana
    che fu l'arte sua prima.
    Pace, pace! Richiama la tua rima
    nel cor tuo come l'ape nel tuo bugno.
    Odi tenzon che in su l'estremo giugno
    ha la cicala con la lodoletta!


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    SAGGIO
    00 11/06/2008 09:21
    La mia preferita è questa:
    Gabriele D'Annunzio
    da "Alcyone"



    LA PIOGGIA NEL PINETO
    (1902)

    Taci. Su le soglie
    del bosco non odo
    parole che dici
    umane; ma odo
    parole più nuove
    che parlano gocciole e foglie
    lontane.
    Ascolta. Piove
    dalle nuvole sparse.
    Piove su le tamerici
    salmastre ed arse,
    piove su i pini
    scagliosi ed irti,
    piove su i mirti
    divini,
    su le ginestre fulgenti
    di fiori accolti,
    su i ginepri folti
    di coccole aulenti,
    piove su i nostri volti
    silvani,
    piove su le nostre mani
    ignude,
    su i nostri vestimenti
    leggieri,
    su i freschi pensieri
    che l'anima schiude
    novella,
    su la favola bella
    che ieri
    t'illuse, che oggi m'illude,
    o Ermione.

    Odi? La pioggia cade
    su la solitaria
    verdura
    con un crepitío che dura
    e varia nell'aria
    secondo le fronde
    più rade, men rade.
    Ascolta. Risponde
    al pianto il canto
    delle cicale
    che il pianto australe
    non impaura,
    nè il ciel cinerino.
    E il pino
    ha un suono, e il mirto
    altro suono, e il ginepro
    altro ancóra, stromenti
    diversi
    sotto innumerevoli dita.
    E immersi
    noi siam nello spirto
    silvestre,
    d'arborea vita viventi;
    e il tuo volto ebro
    è molle di pioggia
    come una foglia,
    e le tue chiome
    auliscono come
    le chiare ginestre,
    o creatura terrestre
    che hai nome
    Ermione.

    Ascolta, ascolta. L'accordo
    delle aeree cicale
    a poco a poco
    più sordo
    si fa sotto il pianto
    che cresce;
    ma un canto vi si mesce
    più roco
    che di laggiù sale,
    dall'umida ombra remota.
    Più sordo e più fioco
    s'allenta, si spegne.
    Sola una nota
    ancor trema, si spegne,
    risorge, trema, si spegne.
    Non s'ode voce del mare.
    Or s'ode su tutta la fronda
    crosciare
    l'argentea pioggia
    che monda,
    il croscio che varia
    secondo la fronda
    più folta, men folta.
    Ascolta.
    La figlia dell'aria
    è muta; ma la figlia
    del limo lontana,
    la rana,
    canta nell'ombra più fonda,
    chi sa dove, chi sa dove!
    E piove su le tue ciglia,
    Ermione.

    Piove su le tue ciglia nere
    sìche par tu pianga
    ma di piacere; non bianca
    ma quasi fatta virente,
    par da scorza tu esca.
    E tutta la vita è in noi fresca
    aulente,
    il cuor nel petto è come pesca
    intatta,
    tra le pàlpebre gli occhi
    son come polle tra l'erbe,
    i denti negli alvèoli
    con come mandorle acerbe.
    E andiam di fratta in fratta,
    or congiunti or disciolti
    (e il verde vigor rude
    ci allaccia i mallèoli
    c'intrica i ginocchi)
    chi sa dove, chi sa dove!
    E piove su i nostri vólti
    silvani,
    piove su le nostre mani
    ignude,
    su i nostri vestimenti
    leggieri,
    su i freschi pensieri
    che l'anima schiude
    novella,
    su la favola bella
    che ieri
    m'illuse, che oggi t'illude,
    o Ermione.



    Io la "vedo" così:

    Il Poeta e la Donna non sono più creature umane,
    ma sono completamente assorbite dalla Natura,
    non più ossa, pelle, capelli,
    ma solo foglie, terra, rami,
    passi leggeri che non lasciano tracce,
    anime intrecciate lontane dalle cure del mondo,
    profumi inebrianti esaltati dalla pioggia
    e una storia d'amore
    che è fiaba, illusione,
    ma è anche un sogno
    che vale la pena di inseguire.

    Lostrys


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    Quetzalopatrius.
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    Forumandiano..!!

    SUPERMASTER
    00 11/06/2008 11:44
    E' vero mi ero scordato questa poesia! è vero è molto bella e hai fatto un'ottima interpretazione lostrys!!!!


    IO SONO UN MODERATORE DI:
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    Lostrys63
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    Forumandiano..!!

    SAGGIO
    00 11/06/2008 17:43
    Re:
    Quetzalopatrius., 11/06/2008 11.44:

    E' vero mi ero scordato questa poesia! è vero è molto bella e hai fatto un'ottima interpretazione lostrys!!!!



    Grazie! [SM=g1355842]