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Oliate i cannoni, buttate i fiori e fate la guerra!
I videogiocatori hanno due ordini di problemi: non farsi guardare storto dai propri coetanei e tenere il cervello aperto.
Il primo problema lo si risolve con il "playradar": basta stare attenti a chi e dove professare la propria passione. Non potete attaccare discorso in autobus con frasi tipo "hai presente il Barlog di quindicesimo? Ho trovato una vorpal che se pompata con le rune RalOrtKal gli fa il 350% di danno non rigenerabile". È un po' come presentarsi in ufficio con le mutande sopra i calzoni: fa strano.
Il secondo tipo di problema è più subdolo: vogliamo giochi sempre più immersivi e i programmatori, per accontentarci, fanno di tutto (a volte giocando sporco, a volte con perle di programmazione) per indurci alla "suspension of disbelief". Lo so che quel drago è fatto di pixel, ma ho i battiti accelerati nel tentativo di farlo a pezzi e salvare la principessa.
Portato all'estremo, questo gioco a rimpiattino tra i nostri criteri di accettazione del reale e quello che i videogiochi propongono può portare a un mezzo cortocircuito: la realtà (compreso il suo aspetto fantasioso: miti, leggende, mondi alternativi, letteratura del fantastico e compagnia) viene presa in prestito, riassunta, potenziata, stravolta, inscatolata e riprodotta in modalità talmente entusiasmanti che qualche videogioco diventa per noi così importante da assurgere a sostituto.
Di cosa? Dipende. Un gdr può essere talmente portentoso (Elder Scroll anyone?) da farci godere di una passeggiata... nei suoi campi fioriti, al punto che quella esplorazione diventa appagante. Non mi spingo a dire "come una scampagnata reale"; ma non posso far finta di non ricordare con pari vividezza certi paesi visitati durante le vacanze e certi scorci delle fortezze naniche in Morrowind.