00 16/02/2005 23:42


Pantani e Cipollini (Ansa)

Cipollini: «Vederlo e ricordarlo è sempre un dolore»

Cipollini, è passato un anno.
«Dicono che il tempo cura le ferite, ma quando sono così profonde non esiste medicina. Il dolore è ancora intenso. Vorrei rimuovere, ma è impossibile».
Era il 14 febbraio 2004.
«Stavo festeggiando una delle mie poche vittorie della scorsa stagione, al Giro del Mediterraneo. Ero in un ristorante di Montecarlo, cenavo con la squadra. Ieri, alla fine della corsa, mi hanno proposto di tornarci: mi sono rifiutato».
Qual è il dolore più intenso?
«È una sorta di ingiustizia umana che percepisco. Al di là del grande campione, penso a un ragazzo di 34 anni che se n’è andato in quel modo».
Si poteva evitare?
«Pochi giorni prima che Marco morisse, mi ero mosso per incontrarlo. Non avevo il numero del suo cellulare: negli ultimi mesi era difficile per chiunque contattarlo. E prima ancora avevo avuto un sogno premonitore...».
Un sogno premonitore?
«Io e Marco al guardaroba di un ristorante. Lui elegantissimo, in abito nero e cravatta bianca, rasato e abbronzato. Sognai di abbracciarlo: ricordo proprio la sensazione fisica di quell’abbraccio. La mattina dopo cercai di parlargli. Troppo tardi...».
È questo il suo più grande rimpianto?
«No. Mi rimprovero di non averlo conosciuto meglio, di non aver avuto con lui un rapporto più stretto. Abbiamo vissuto vite distanti, ma tra noi c’era grande rispetto. Lo scalatore e il velocista: ciascuno, nel suo ruolo, aveva il suo spazio ben definito nel mondo del ciclismo».
Rivalità evitata, quindi.
«Mai un’incomprensione, mai una gelosia. Non abbiamo condiviso ritiri o camere d’albergo, ma nel gruppo, in corsa, abbiamo parlato tanto dei problemi del ciclismo. Ed eravamo sempre in perfetta sintonia». Tornando indietro, gestirebbe in modo diverso il progetto (fallito) della squadra insieme?
«Credevo in quel progetto, credevo di poter trasmettere a Marco ciò in cui lui non credeva più. Chissà come sarebbero potute cambiare le cose se fosse andato in porto...».
Cesenatico, ieri, si è stretta intorno al suo campione.
«Nessuno può renderci l’uomo. Per me vederlo in foto o alla tv e parlarne è ancora oggi uno strazio. Mia moglie e le mie figlie, a Natale, mi hanno regalato ’’Un uomo in fuga’’, il libro scritto da Manuela Ronchi, l’ex manager di Marco. Ho scartato il pacchetto, ho visto la foto di copertina e ho sentito un dolore al petto: in quello sguardo, colto in un momento di furore agonistico, c’è il destino di una persona condannata a soffrire. Non ce l’ho fatta. Non ho nemmeno cominciato a leggerlo».
Ha sentito mamma Tonina?
«La chiamo spesso e ieri le ho chiesto il permesso di fare questa intervista. Non volevo pensasse che approfittassi dell’anniversario della morte di suo figlio per farmi pubblicità...».
E cosa le ha detto?
«Mario, sono contenta che di Marco parli un amico come te». Come ricorda Marco Pantani? «Ricordo un atleta forte e sereno, nato per correre in bicicletta in salita. Ricordo un uomo al quale, forse, la timidezza non permetteva di esprimersi in totale libertà».
Cosa avevate in comune, oltre alla passione per il vostro sport?
«Molte cose. Tutti e due abbiamo vissuto il ciclismo come un grande amore e come un mezzo per togliersi enormi soddisfazioni. Tutti e due venivamo da famiglie semplici, normali: condividevamo lo stesso orgoglio nel ripagare, con i successi, tutti i sacrifici che i nostri genitori avevano fatto per noi. E poi quella contraddizione continua...».
Cioè?
«Da un lato la vita quasi ascetica del ciclista professionista e dall’altro, finita la corsa, la voglia di divertirsi in discoteca fino all’alba. La spartanità della vita da atleta e le belle macchine».
Qual è il ricordo al quale è più affezionato?
«Al Giro d’Italia 2003, Marco stravedeva per le ruote superleggere della mia bicicletta, ma non poteva provarle per problemi di sponsor. Un giorno ci mettemmo d’accordo e, dietro una curva, ci fermammo. Vaffanbagno lo sponsor... Marco le montò e ripartì felice come un bambino, con un meraviglioso sorriso di complicità. C’era una salita. ’’Dài che ti aspetto per rientrare insieme’’ mi disse. E io: ’’Vai, vai. Se aspetti me in salita arrivi domani...’’».
Il pm di Rimini ha chiesto il rinvio a giudizio per gli ultimi fornitori di cocaina di Pantani. Lei cosa si aspetta dall’inchiesta? «Non mi va di entrare nel merito delle colpe e delle responsabilità. Per me da Madonna di Campiglio in poi, non conta più niente. Tre disgraziati in carcere non ci restituiranno Marco Pantani».
Dalla sua morte, le è più capitato di sognarlo?
«Sì, una volta. Il mio inconscio l’ha evocato una notte di qualche tempo fa, alla guida di una stupenda decappottabile, io al posto del passeggero. Eravamo a Miami, o in un posto del genere. C’era il sole, il mare e la spiaggia sullo sfondo. Marco era bello, sorridente, trasmetteva grande serenità. Come per dirmi: Mario, stai tranquillo, nel luogo dove mi trovo adesso sto benissimo».

Fonte Corriere.it


E' passato un anno... nulla è cambiato per me... quando in tv guardo una gara ed inizia una salita e Marco non c'è... è una fitta al cuore profonda...