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i tesori dell'istria

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    SAGGIO
    00 18/07/2005 08:47
    A Trieste esposti i capolavori istriani: tavole di Paolo Veneziano, Alvise Vivarini, tele di Vittore Carpaccio, di Giambattista Tiepolo, di Giuseppe Angeli









    Galleria
    fotografica


    Trieste - Per il pubblico, tre anni fa, fu una specie di beffa. A Roma, al Museo di Palazzo Venezia, un tesoro di antichi dipinti italiani dell’Istria era stato tolto, dopo 62 anni, dalle casse che lo avevano protetto dalla guerra e dalle razzie. E si trattava di 25 opere di Paolo Veneziano, Alvise Vivarini, i due Carpaccio, Giambattista Tiepolo, insomma dal Trecento al Settecento. Una mostra viene annunciata. Le opere vengono presentate ai giornalisti. L’attesa cresce perché i dipinti sono di artisti importanti, perché vengono da Capodistria e Pirano, terra con impronta veneta, ma che italiana non è più, anzi qui l’italianità è stata cancellata brutalmente. Poi niente. Neanche Vittorio Sgarbi, allora sottosegretario ai Beni e attività culturali, che aveva sbloccato l’ apertura delle casse (dando quel permesso che la soprintendenza romana aveva chiesto più volte negli anni al ministero), riuscì a venirne a capo. Non si può fare una mostra senza studi, ricerche, restauri.

    Forse era più giusto così anche perché adesso la mostra si fa nel posto più vicino a quella terra che ora fa parte della Slovenia, Trieste, alla cui soprintendenza Sgarbi assegnò le opere. Una mostra dal titolo quasi dimesso "Histria. Opere d’arte restaurate: da Paolo Veneziano a Tiepolo", ma l’avvenimento è importante. Per l’interesse delle opere (la proiezione, il mantenimento e adattamento dei modi dell’arte veneta nelle terre di confine, la stanchezza di certi maestri in epoca tarda, i bagliori tizianeschi che resistono), la loro storia (opere italiane salvate e ora valorizzate dopo decenni, che neppure gli studiosi conoscono se non per foto di prima della seconda Guerra mondiale) e soprattutto quello che significano in proiezione immediata. Perché fino al 6 gennaio 2006 la mostra è nel Civico museo Revoltella, ma, quasi come un passaggio di testimone, andrà a formare uno dei due nuclei forti della nuova Galleria nazionale d’arte antica che Trieste attende da anni. Nel complesso più famoso di Trieste, il castello di Miramare.

    Le opere esposte sono 21 (in maggioranza di grandi dimensioni). Tavole di Paolo Veneziano (due); Alvise Vivarini; un maestro belliniano del 1490 circa; una tela di Vittore Carpaccio; tre del figlio Benedetto; una tela col Cristo morto a mezza figura di un maestro veneto provinciale; una croce dipinta; elementi di polittico del XV secolo trasformati in ante di armadi sia pure liturgici; una tela di Matteo Ponzone, protagonista del Seicento veneziano; una icona a fondo oro del rarissimo Constantinos Sgouros, pittore cretese della prima metà del Seicento; la grande "Madonna della cintola" di Giambattista Tiepolo; una tela di Giuseppe Angeli (1710-1798); uno (straordinario) busto di Cristo in legno dipinto di Francesco Terilli, del 1590-1610; un bronzetto su modello dell’Algardi; bronzetti come i "picchiotti" e i mascheroni per i portoni.

    Tutti i pezzi sono al meglio delle condizioni perché sono stati studiati, indagati e restaurati con una suddivisione del lavoro in mezza Italia. I problemi di conservazione non sono stati provocati dalla permanenza nelle casse dove erano stati protetti con paglia e fogli di giornali dell’Istria italiana, ma dagli antichi e meno antichi interventi o "spulizie" subite.

    La mostra è a cura della soprintendenza del Friuli Venezia Giulia con la collaborazione dell’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e il Comune di Trieste. Il catalogo (Electa) a cura di Francesca Castellani e Paolo Casadio, è dedicato a Federico Zeri per l’impulso allo studio dei confronti tra pittori e paesi nella storia d’Europa.

    Le opere furono allontanate dall’Istria nel maggio-giugno 1940 per essere messe al riparo dalle minacce della guerra. Fanno parte di quel fiume di dipinti, sculture, oreficerie, reliquari, arredi di chiese, edifici, musei, collezioni private (248 casse, dal Friuli alla Venezia Giulia all’Istria e a Fiume) che furono concentrati a Villa Manin di Passariano. La villa fu offerta dal proprietario, ma non era il rifugio migliore data la vicinanza a due aeroporti, tanto che nel 1943 non venne più considerata sicura. Nell’aprile ’48 le casse di Capodistria e Pirano vengono spostate a Roma, al Museo nazionale romano, e dal luglio ’72 al Museo di Palazzo Venezia.

    Le due tavole di Paolo Veneziano, il primo grande "traghettatore" della pittura veneziana dai lidi bizantini, il polittico "Madonna in trono con Bambino e due angeli, la Maddalena e sette santi" datato 1355 e "Crocifissione", sono state presentate a Rimini nel 2002 nella mostra sul Trecento Adriatico, Paolo Veneziano e la pittura tra Oriente ed Occidente. Il "Polittico di Pirano" è uno schieramento rosso-oro di santi lungo 247 centimetri e alto 82, con al centro il pannello con la Vergine mimetizzata in un mantello blu tutto ricoperto da un minuzioso motivo di ramages vegetali dorati intorno ad un motivo di palmetta. Il motivo si espande sopra il cuscino a rullo sul trono e sulla veste della Madonna che ha un fondo rosso. Un disegno sontuoso, ma fatto a stampino o su cartone, un modello riutilizzato dalla bottega. Dietro alla Madonna due angeli in rosa e verde, dalle ali rosse, fanno lo sfondo oro ancora più ricco dispiegando un drappo anche lui tutto ricoperto da una decorazione rosso-oro che si intona con la veste della Vergine.

    Due curiosità. Sotto le colonnine tortili che separano i pannelli dei santi erano nascoste delle pennellate: qui Paolo Veneziano ha pulito il pennello (stretta l’analogia fra la materia dei colori e il modo di stenderli sulle figure e sotto le colonnine). La tavola, in legno di pioppo, è di seconda mano. Sul retro esiste una preparazione che ripete quella dell’altra faccia, in posizione capovolta rispetto al fronte della tavola.

    Paolo Veneziano pone subito una bella questione: se si tratta di una sola opera o di due. Una pala complessa completata nella parte superiore da una "Crocifissione" (con altri pannelli di santi poi asportati).

    La "Madonna col Bambino e angeli musicanti", un fondo oro alto 104 e largo 45 centimetri, con la Vergine e i due angioletti bloccati a bocca aperta per non disturbare il Bambino che dorme, viene giudicata un’opera cardine del percorso stilistico di Alvise Vivarini che la dipinse nel 1489. Riavvicinandosi allo stile lineare dello zio Bartolomeo, Alvise "si è inoltrato nel mondo dischiuso da Antonello da Messina e Giovanni Bellini, un mondo in cui dominano gli effetti percettivi della luce". Il fondo è stato ridorato a guazzo probabilmente durante la forzata trasferta a Vienna. Nel 1802 la tavola venne imposta come dono all’ imperatore Francesco II. Dopo la Prima guerra mondiale venne restituita all’Italia. Alvise utilizzò molto probabilmente gli stessi cartoni di questa composizione per la successiva variante, in orizzontale, con la Madonna a mezzo busto, oggi nella sacrestia della chiesa del Redentore a Venezia.

    A Roma Vittorio Sgarbi espresse qualche dubbio sull’opera. Per lui non è un originale, ma una copia di inizio Ottocento; a metterlo in sospetto sono soprattutto le mani. La prova si potrebbe avere confrontandola col dipinto al Redentore. I sospetti di Sgarbi non sono mai stati raccolti dalla critica né antica né moderna.

    L’ "Entrata del podestà-capitano Sebastiano Contarini nel duomo di Capodistria" del 1517 è "un’interessante testimonianza della maniera tarda, punto di arrivo di un complesso percorso artistico" di Vittore Carpaccio. In fuga dalla "Venezia rivoluzionaria dell’ultimo Bellini, di Giorgione, di Tiziano". L’osservatore è posto all’interno della concattedrale di Capodistria: Contarini è sul sagrato, in toga purpurea con maniche alla "dogale", circondato da una doppia fila di importanti personaggi nero vestiti "ognuno effigiato con incredibile precisione". Dietro, un uomo col falcone, popolani, giovani donne che da una terrazza spargono petali di rosa. Il momento è stato fissato "con precisione fotografica".

    Per ottenere "nuove finalità espressive" dalle caratteristiche fisiche del supporto, Carpaccio, invece della imprimitura a base di gesso e colla utilizzata dalla maggior parte degli artisti contemporanei, ha steso direttamente sulla tela un’emulsione a base di olio siccativo, caricato con biacca e con particelle finissime di ocra che hanno dato alla preparazione una colorazione rossastra. Una tecnica "molto personale" che è stata la causa principale del degrado del dipinto, di ampie cadute di colore e zone di tela a vista.

    Ci sono anche i primi due dipinti (firmati e datati 1537 e 1538) di Benedetto Carpaccio, un artista "sconosciuto alla storia veneta" che ha dovuto attendere secoli per essere considerato "degnissimo" e distinto dal padre Vettore. Sono "Incoronazione della Vergine" nella quale la pulitura ha rivelato "un morbido gioco di passaggi tonali nei rossi e nei blu che tingono le vesti e i mantelli" dei tre personaggi al centro: Cristo incoronato che incorona la Madonna in ginocchio davanti a lui con le braccia conserte, e il Padreterno dalla barba vaporosa che benedice e riunisce. "Quasi compiaciuto", da minatore, il trattamento dei peli delle barbe, i capelli ricciuti, ondulati, le penne delle ali degli angeli musicanti.

    Sul secondo dipinto "Madonna col Bambino fra i Santi Bartolomeo e Tommaso" (200 per 167,5 centimetri), la critica si è accanita parlando di composizione senza spontaneità e rigida, contraddetta dal Bambino che fa quasi un balzo sul ginocchio della Madonna, dall’angioletto musicante ("spiccatamente" Bellini) che sgambetta ai piedi del trono della Madonna, dal tessuto damascato dorato che pende dallo schienale del trono, dal paesaggio dello sfondo con lago, edifici, montagne e un cielo che ha recuperato la chiarezza, "con una notevole freschezza negli accenni figurativi". I panneggi dei due santi ("di matrice mantegnesca") vengono liquidati come "quasi appiccicati alle figure".

    Un terzo dipinto di Benedetto, "Madonna col Bambino tra i Santi Lucia e Giorgio", dallo sfondo che occupa quasi tutto il secondo piano, animato da prati, fiume, case, bosco, rilievi, nuvole, viene giudicato come il più felice della produzione istriana, ma anche il più debitore verso il grande Vettore.

    Gli studi relativi per la mostra hanno anche modificato una attribuzione. L’ "Annunciazione", una tela centinata alta 2,40, entrata nelle casse come opera di Jacopo Palma il Giovane, ne è uscita come opera di Matteo Ponzone. Il fatto è che nessuno studioso aveva mai visto la tela "in faccia". Solo alla prima ricognizione critica del dipinto nel 2002, nonostante una conservazione compromessa, Vittorio Sgarbi la spostava a Matteo Ponzone, confermato questa volta in pieno dal restauro che ha recuperato in buona parte la cromia e le caratteristiche della pennellata. La scena è giocata su una impostazione scura, ma con zone calde (gialle, aranciate, violette) e zone chiare, l’angelo dominante sulla nuvola e al centro la delicata e dinamica presenza della Colomba in volo obliquo. E "un importante tassello al catalogo di una personalità centrale nel panorama della pittura veneziana del Seicento nel passaggio dal manierismo" di Palma al rinnovamento barocco. Nell’ "Annunciazione" c’è "la dotta citazione da Tiziano" e la "moderata adesione al naturalismo". Per Sgarbi, Ponzone è "l’ultimo pittore a tenere in mano il pennello di Tiziano". La tela era stata trattata con una patina artificiale che aveva perso trasparenza "virando su di una tonalità ambrata e alterando i rapporti cromatici". Soprattutto nelle zone chiare e nel manto blu della Madonna, quasi completamente perduto.

    La "Madonna della Cintola" è l’unica opera di Giambattista Tiepolo in area istriana, fatta nel 1730 circa per l’unico altare della chiesa della Madonna della Consolazione a Pirano. Qui Tiepolo, osserva Giuseppe Franca, rinuncia almeno in parte ai temi formali barocchi "con composizioni aeree, trattate con motivi eterei e coloriture tenui". Santa Monica (con dietro uno statuario arcangelo Michele che schiaccia il demonio sui gradini con l’asta) è accanto a Sant’Agostino, ai piedi della Madonna dalla quale riceve la sottile cintura. L’intervento attuale ha riportato a nitore lo stile di Tiepolo, la vivacità dei colori. L’abito di Santa Monica, nota Fabrizio Magani nella scheda, è ora "di un nero sofisticato intriso di un tono di grigio virato nei riflessi del blu profondo".

    In mostra c’è uno dei rari lavori firmati da Giuseppe Angeli (1710-1798), "figura chiave dell’aggiornamento classicista della pittura veneziana", come capo-studio del Piazzetta di cui eredita l’attività alla morte nel 1754. Si tratta della grande pala (238 per 121 centimetri) della "Madonna del Rosario, tra San Domenico e Santa Rosa da Lima" che finora era conosciuta solo per una foto del 1935. La critica ne apprezza la particolare diligenza nel disegno delle teste, dei piedi e delle mani "parti che sono difficili assai". Il restauro ha recuperato la "fragranza dei colori". La "Madonna del Rosario" appartiene a quelle opere che hanno "i raggi dell’ultima luce venuta da Venezia, e che sono le ultime di pregio eseguite o portate a Pirano".

    Fra le sculture c’è un capolavoro. Il "Cristo dolente" del veneziano Francesco Terilli, dal modellato "finissimo e di altissima qualità", il busto di quello che doveva essere un "Cristo alla colonna". Alto 53 centimetri è scolpito a tutto tondo (e dipinto) in un tronco di tiglio al quale sono stati incollati alcuni masselli. La pulizia ha recuperato la policromia e l’incarnato originale eliminando una pesante patinatura bruna, probabilmente ottocentesca, che voleva far passare il tiglio per noce massiccio o bronzo.

    Come si è detto le buone notizie non finiscono con la mostra. Sempre tre anni fa a Roma l’allora assessore alla cultura del Comune di Trieste, Roberto Menia, annunziò che le opere ricomparse dell’Istria avrebbero avuto sede in un nuovo museo preparato dal Comune entro il 2004. Come sede sarebbe stato proposto uno fra Palazzo Carciotti "il più bel palazzo neoclassico di Trieste e probabilmente d’Europa", Palazzo Gopcevic dell’inizio dell’Ottocento e Palazzo Sartorio. Il tempo è passato, gli uomini sono cambiati a Trieste e a Roma e anche i progetti, ma il museo non è stato cancellato. Il nuovo museo è la nuova Galleria nazionale d’arte antica che è stata estratta da Palazzo Economo, una sede innaturale quanto a spazio e coabitazione, per entrare in uno dei complessi monumentali più conosciuti e visitati d’Italia, il Castello di Miramare, esattamente le Scuderie già usate per mostre. E sarà un museo moderno con le appendici necessarie al pubblico di tutte le età, pronto a dare ai collezionisti quelle garanzie di sicurezza e valorizzazione delle opere per meritare donazioni, depositi. Qui si ritroveranno le opere dell’Istria (27, la mostra più oreficerie, arredi) e una settantina dell’attuale Galleria nazionale. I tempi? Per il direttore regionale Ugo Soragni, la Galleria sarà pronta "nei primissimi mesi del 2006, anche prima della primavera". Si sta "completando la progettazione degli impianti perché solo quelli mancano. A settembre l’appalto e poi 3-4 mesi di lavori. I soldi, circa 200 mila euro, sono già disponibili.

    Ma il capitolo, meglio il libro, delle opere d’arte salvate dall’Istria non è finito. Un altro gruppo (61, dal XVI al XX secolo) si prepara a tornare all’esposizione pubblica a Gemona del Friuli. Sono le opere della chiesa francescana e relativo convento di Sant’Anna di Capodistria che i frati misero in salvo nel 1942-43 nel convento di Santa Maria Maggiore di Trieste. Da qui a Mantova, e, dal 1972, per ragioni di conservazione nel "deposito coatto" (provvisorio), della soprintendenza a Palazzo Ducale. Spicca il celebre polittico che Cima da Conegliano firmò e datò 1513, "Madonna col Bambino e santi"(un monumento su tre livelli di oltre tre metri per tre metri). Ma anche la "Crocifissione con la Maddalena e santi" di Jacopo Palma il Giovane, il "Compianto" di Girolamo da Santacroce, il "San Bernardino da Siena" dell’ambito di Bartolomeo Vivarini, la pala "La gloria del nome di Gesù e santi" di Benedetto Carpaccio, il "Ritratto di Pasquale da Rovigno" di Stefano Celesti. Tutti i dipinti di maggiori dimensioni e la maggior parte di quelli in precario stato di conservazione (27 in tutto) sono stati restaurati in questi decenni con i soldi della soprintendenza. Prima di tutti il polittico di Cima che fu trasferito a Roma, all’Istituto centrale del restauro per un intervento complesso e indifferibile portato a termine fra il 1979 e il ’92. A fine ’93 Cima poteva essere esposto a Palazzo Ducale. Adesso le opere sono tornate ai proprietari, i frati Minori della Provincia Veneta. Come annuncia Giuliana Algeri, già soprintendente a Mantova, nel complesso francescano di Sant’Antonio a Gemona si stanno preparando gli spazi nel Museo Raffaelli. Potranno essere esposte tutte le opere più importanti, oltre venti, e le altre sistemate nel convento non più in un deposito. Anche questi dipinti stanno per terminare una quarantena di oltre 60 anni.

    Notizie utili - "Histria. Opere d’arte restaurate: da Paolo Veneziano a Tiepolo". Dal 23 giugno al 6 gennaio 2006. Trieste. Civico Museo Revoltella, via Diaz 27. A cura della soprintendenza del Friuli Venezia Giulia con la collaborazione dell’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e il Comune di Trieste. Catalogo (Electa) a cura di Francesca Castellani e Paolo Casadio. I restauri sono stati diretti dalle soprintendenze del Friuli Venezia Giulia, del Veneto e del polo museale di Roma.
    Orari: giorni feriali (martedì chiuso) 9-13,30 e 16-19; domenica 10-19.
    Biglietti: intero 7 euro; ridotto 5. Informazioni, prenotazione e prevendita biglietti; prenotazione gruppi, scuole e visite guidate: 040-675 4350 / 4158.



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