Il falò delle griffe del profeta anti-logo

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isa46
00venerdì 29 febbraio 2008 17:19
LONDRA
Chissà se funzionerà come benzina sul fuoco Curious, il profumo firmato da Britney Spears, sparso in gran quantità sulla fiamma che arde? E chissà se il cachemirino Ralph Lauren e la polo Lacoste si consumeranno sulla pira nello stesso tempo? I nostri abitini Guess, già indossati da Paris Hilton ed Eva Herzigova, a che velocità spariranno? Infine, che cosa si prova a vedere le nostre Adidas al rogo? Una sensazione frizzantina, tonica come un bel bicchiere di vino: è la risposta del giornalista Neil Boorman che le sue sneaker preferite le ha messe in cima al falò delle vanità, ovvero al rogo dei suoi beni griffati gettati alle fiamme.

Ore 18,45 di un bel pomeriggio settembrino. Sotto lo sguardo occhiuto della Bbc, alla presenza di giornalisti e fotografi, nella londinese Finsbury Square, Boorman, ex promoter di locali notturni e anche di marchi - tra cui Smirnoff, Nokia, Nike e Diesel - ha deciso di porre fine a una brillante carriera e a uno stile di vita. Ha dato fuoco a tutti i suoi oggetti di marca, dalle magliette Hugo Boss al Burberry ai pantaloni Sergio Tacchini; mentre ha preso a mazzate il televisore LCD, il blackberry uguale a quello usato da George Clooney, l’iPod, l’aspirapolvere e le suppellettili griffate. Ex guru della tivù e dell’editoria per teenager, bamboccioni e bamboccini incantati dalla sirena dello spot e del brand, il voltagabbana Boorman ha stilato il manifesto degli antibrandisti, «Goodbye logo. Come mi sono liberato dell’ossessione dei marchi» (uscirà a giorni da Guanda editore). E oggi proprio la sua voce, che conosce dal di dentro la fabbrica del desiderio più effimero, sta surclassando quella della profetessa anticonsumo Naomi Klein: il popolo dei no-logo/no-global dell’universo anglosassone è stato catturato dal gesto dimostrativo, ha messo in moto il tam tam di Boorman che adesso si prepara a conquistare anche la penisola.

Ragazzino percettivo e intelligente che di griffe ne conosceva una più del diavolo, Boorman fin da piccolino ha colto che il brand è la chiave per accedere nell’universo mondo. «Dimmi che brand usi e ti dirò chi sei». Il piccolo guru che fin dalle elementari aspirava a una carriera di venditore di sogni o di lucciole per lanterne, decrittava così le aspirazioni più segrete dei coetanei: diventare Brad (Pitt) usando il suo stesso brand. Le inquietudini del giovane Boorman si erano manifestate all’epoca dei sanguinosi scontri con i genitori per una costosa felpa della Pringle, per le ricercate Adidas, per i salatissimi, dal punto di vista economico, giochini di Guerre stellari. Dopo un’infanzia griffata e strappata di (g)riffa o di raffa ai parenti non troppo agiati, Boorman, conteso dalle più famose industrie produttrici di brand, è diventato un intossicato, marchiato a segno dai suoi stessi marchi, un drogato dello shopping griffato.

Non è un caso che il giornalista abbia eletto le fiamme a mezzo di distruzione della sua nevrosi. Brand deriva dall’inglese antico «brandr» e significa bruciare. Il marchio va a braccetto con il fuoco: dagli antichi greci, che per gli schiavi usavano la lettera Delta, agli ufficiali anglosassoni che ancora nella seconda metà dell’Ottocento marchiavano i soldati di «bad character», per arrivare alle gang di strada degli Stati Uniti e alla confraternita Delta Kappa Ipsilon di Yale. Quest’ultima si dilettava a contrassegnare con le sue iniziali le natiche dei suoi aderenti, tra cui quelle non ancora illustri di George W. Bush.

Dopo che Boorman si è imbarcato nell’avventura della vita non marchiata, i rimpianti dei suoi brandizzati trascorsi non mancano. Vanno dal portafoglio Prada, ai jeans Levi’s, ad Andrex, Bounty, Double Velvet, ovvero alla carta igienica morbida e vellutata ora sostituita da rotoloni giganti acquistati dal grossista di articoli per imprese di pulizia.

Nonostante tanti sacrifici, il nuovo Testamento dei «debrandizzati» promette di far proseliti. Nel solo Regno Unito sono migliaia le persone che si sono ridotte in povertà per debiti. Nel 2004 l’indebitamento dei consumatori britannici ha raggiunto la vetta storica di mille miliardi di sterline; passati a 1.250 nel 2006: una media di 8.765 sterline pro capite, esclusi i mutui. Sono circa 3 mila i messaggi pubblicitari a cui siamo esposti ogni giorno; sono circa 40 le marche memorizzate da un ragazzino di 10 anni; saranno circa 2 milioni le pubblicità che avrà visto a 65 anni un trentenne dei nostri giorni. Che fare? Sostituire anche le nostre marche preferite, a cominciare dal twinings mattutino, per immiserirci in abitini riciclati e tute mimetiche non firmate? Vita grama per i non griffati. Forse oggi, però, i più à la page: non sarà infatti che il vento sta girando e il trend è contro il brand? E che siamo entrati nell’era del logo del no-logo, come il profeta Boorman ha anticipato? Chi vivrà vedrà.

Pubblicato nel 2000 dalla giornalista-attivista canadese Naomi Klein, il saggio «No Logo» è stato etichettato come «la Bibbia del movimento antiglobalizzazione». Espressione del crescente malcontento nei confronti dei marchi, il libro descrive un mondo spaccato in due: da un parte gli abitanti dei Paesi ricchi, plagiati dalle suggestioni di marchi e prodotti griffati, dall’altra le zone più svantaggiate del pianeta, dove le grandi aziende hanno spostato la produzione dei beni di consumo.

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