Parlare male di Cuore di Edmondo De Amicis è fin troppo facile: troppo lontane dalla nostra sensibilità appaiono le patetiche storie di questi piccoli eroi della borghesia post-rinascimentale, così come dovrebbe essere superato anche il modello pedagogico proposto dal gruppo del maestro Perboni.
Eppure non è possibile, in Italia, parlare di letteratura per l’infanzia tralasciando questo che, almeno fino agli anni Cinquanta, è stato un testo immancabile nella formazione di intere generazioni. Con Cuore si tentò, quasi cinquant’anni dopo l’ultima edizione dei Promessi Sposi e a venticinque dalla nascita del Regno d’Italia (il romanzo di De Amicis risale infatti al 1886), un’impresa di unificazione nazionale attraverso un’opera letteraria, con la ricerca di un linguaggio accessibile a tutti e di un sistema di valori comune, facilmente assimilabile ma nello stesso tempo in grado di farsi carico di quella carica ideale necessaria al costituirsi di una nuova nazione. Un’operazione che, con il suo esito straordinariamente positivo, potrebbe essere paragonata al ruolo avuto dalla televisione nell’Italia del secondo dopoguerra.
E non si può certo dire che il successo di Cuore fosse un risultato inaspettato: giornalista esperto, accorto conoscitore dei meccanismi sottesi alla realtà sociale del suo tempo, De Amicis era del tutto consapevole della funzione che il suo libro avrebbe potuto ricoprire, così come, d’altro canto, era il primo ad ammetterne senza ipocrisia i limiti letterari e artistici. Nel 1874, in alcune pagine sparse, De Amicis si lascia andare ad una severissima autocritica, che sembra preannunciare con singolare lucidità molti dei difetti tradizionalmente imputati alla sua opera più famosa:... «Un manzonismo annacquato, senza coraggiose affermazioni; [...] un tirar sempre al cuore a tradimento, quando si dovrebbe tirare alla testa». Interessante è soprattutto questa contrapposizione tra cuore e testa, intesi metonimicamente come il luogo degli affetti più facili e immediati, contrapposto ad una razionalità rigorosa e impegnata a comprendere e interagire in modo responsabile con il mondo. Eppure, singolarmente, dodici anni dopo queste dichiarazioni tanto severe, sarà proprio su questa medesima contrapposizione che De Amicis costruirà Cuore, e fin dal titolo si evince chiaramente quale delle due parti prenda il sopravvento. Una scelta deliberata, dunque, dettata più da esigenze di carattere social-pedagogico che da un autentico gusto personale dell’autore.
Il libro è costruito come un diario, composto da Enrico, un alunno della terza elementare (che corrisponde all’attuale quarta); alle annotazioni del bambino si intercalano interventi sotto forma di lettera da parte dei genitori e della sorella, oltre a nove racconti, dettati mensilmente dal maestro ad edificazione della giovane scolaresca (Il piccolo patriota padovano; La piccola vedetta lombarda; Il piccolo scrivano fiorentino; Il tamburino sardo; L’infermiere di Tata; Sangue romagnolo; Valore civile; Dagli Appennini alle Ande; Naufragio). Protagonisti di ciascuno di essi sono sempre i fanciulli, ogni volta provenienti da un diversa regione del neonato Regno d’Italia, chiamati a gesti di eccezionale abnegazione o addirittura di eroismo, a difesa della patria, della famiglia o di qualche particolare valore come l’onestà o l’altruismo. Anche nella cornice si può distinguere lo sviluppo di un storia, che si dipana lungo tutto il libro seguendo i ritmi e le scansioni dell’anno scolastico, da ottobre a luglio. Ma, al di là di questo sviluppo narrativo tutto in superficie, i piccoli protagonisti rimangono statici e perennemente uguali a se stessi, al ruolo particolare che a ciascuno di essi è stato affidato: Enrico, quieto eroe della medietas borghese; Garrone, incarnazione della bontà semplice e sincera del popolo; Franti, il reietto, il peccatore, che solo l’altrui generosità potrà salvare; e così via. Va sottolineato che questi piccoli modelli di vita incarnano l’ideologia e i valori della borghesia umbertina in un’ottica assolutamente laica, priva di qualsiasi accenno alle ricorrenze e ai riti religiosi: si esprimeva in questo modo il concetto di Stato che era venuto formandosi dopo l’Unità, e le cui basi erano state poste da Cavour proprio in quel Piemonte che fa da sfondo alle vicende di Cuore.
È inutile soffermarsi a sottolineare i limiti e le ingenuità ideologiche che segnano quest’opera: come si è visto, lo stesso De Amicis ne era consapevole e, d’altronde, egli diede prova altrove di ben altre doti letterarie: si pensi ai suoi numerosi reportage di viaggi, o a uno scritto come Sull’oceano (1899), forte denuncia delle terribili condizioni di vita degli emigranti che testimonia chiaramente le convinzioni socialiste maturate dallo scrittore. A ben guardare, anche il registro patetico sentimentale adottato in Cuore nasceva dalla volontà di agire sulla realtà, di cambiarla in meglio: anche se l’assunto di partenza era che il popolo semplice poteva lavorare solo di sentimento, e non di intelletto. Come Perboni alla sua scolaresca il primo giorno di scuola, così pure De Amicis pareva esortare i lettori: «Mostratemi che siete ragazzi di cuore».
Qui potete liberamente sfogliare il libro:
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