di Giorgio Celli
30 Giugno 2009 - Molti mi chiedono, incontrandomi per strada o alla fine di una mia conferenza, se davvero lo studio degli animali, la investigazione della loro etologia, possa servire per capire meglio noi stessi. Non ho dubbi che sia così, e ve lo dimostro subito. Per farlo, vi invito con me ad andare, per dir così, a scuola dal gorilla.
Immaginatevi di essere nella sala d’aspetto di una stazione, oppure, che è lo stesso, seduti al tavolino di un caffè. D’un tratto, vi accorgete che qualcuno vi sta guardando fissamente, e con insistenza. Se siete una bella signora, beh, le intenzioni dello “scrutatore” possono essere facilmente intuibili, benché sempre tali da suscitare il disagio, ma se siete un uomo, la cosa apre lo spazio a molteplici congetture. Che diavolo vuole quello sconosciuto da voi ? Lo osservate, a vostra volta, in tralice, distogliendo subito gli occhi. Speriamo che la finisca, vi dite. E invece no, lo sfrontato continua a fissarvi.
A poco a poco, cresce in voi una sorda irritazione, che culmina in una palese aggressività. Siete tentati di alzarvi in piedi, e di andare, dritti dritti, a chiedergli con malagrazia che cosa vuole, e, perché no, vi prudono le mani, sentite una certa tentazione di prenderlo a schiaffi. Bene, non occupiamoci più di come termina il mio breve apologo, e che cosa volesse da noi l’importuno, e ricordiamoci, invece, di George Schaller, un primatologo che, all’inizio degli anni Sessanta, si recò in Africa, sulle pendici del Virunga, per vivere quasi un intero anno insieme a un gruppo di gorilla.
Dopo qualche approccio, il nostro eroe riuscì a farsi accettare da quei pacifici bestioni, che, nei capi, possono realizzare delle stazze corporee di duecento e cinquanta chilogrammi e passa. Schaller visse, si può ben dire, con loro, osservandoli, e in una certa misura fraternizzando, pioniere di quelle ricerche che altre donne coraggiose continueranno dopo di lui, Diane Fossey proprio su quei gorilla, e Jane Goodal sugli scimpanzé.
Ma per convivere pacificamente con quegli autentici signori della montagna, Schaller dovette conformarsi a una regola di galateo: non fissare direttamente negli occhi, e con sfrontatezza, i gorilla di alto rango, gli anziani con il pelo dal dorso color argento, perché l’evenienza avrebbe avuto per loro il significato di una sfida.
Fissare e sfidare sono la stessa cosa, per cui se ci mettono “alla prova dello sguardo”, i gorilla, e noi come si è visto, diventiamo aggressivi e pronti al cimento. Che cosa ne dite ? Il parallelo vi sembra illuminante ? Dunque, se i gorilla sparissero dal pianeta, e sembra che questo sia in procinto di accadere, l’uomo, sto parafrasando Buffon, diventerebbe un poco più incomprensibile a se stesso.
Sembra certo che siano gli scimpanzé, e forse più precisamente i bonobo, i nostri cugini più probabili, il nostro dna differisce dal loro soltanto per l’1%, però i gorilla sono a loro volta delle scimmie antropomorfe, e vicine a noi nella scala zoologica. Grandi, e dall’aspetto poco rassicurante, al punto da avere ispirato la favola cinematografica di King-Kong, questi animali sono, al contrario, dei bonaccioni, con un regime dietetico a base di vegetali, e con un sistema gerarchico ben poco autoritario.
Il piccolo di gorilla, inoltre, è davvero una creatura adorabile, e che ispira sentimenti di protezione in chiunque lo veda. Difatti, progenie di creature così gigantesche, nasce di esiguissime dimensioni, e per fare un paragone eloquente, mentre un neonato della nostra specie si presenta con un peso ridotto a un ventesimo di quello della madre, il peso del gorillino è riducibile di ben quaranta volte! E viene al mondo, povero lui, con una muscolatura corporea piuttosto inefficiente, per cui devono passare alcuni mesi perché, a differenza di quanto accade nelle altre scimmie, diventi in grado di aggrapparsi al pelo della madre, quando deve essere portato in giro.
Cessato il periodo dell’allattamento, il gorillino, già notevolmente cresciuto, deve cambiare regime dietetico, e qui corre il rischio di scegliere come cibo delle piante che hanno elaborato delle sostanze tossiche, proprio per difendersi dagli erbivori. Ma, niente paura, il piccolo imiterà la madre, mangiando quella che lei stessa preferisce, ma non basta: si è visto come quest’ultima, dando prova di intelligenza e di buona memoria, lo distolga dai vegetali pericolosi, magari proprio da quelli i cui effetti nocivi ha già sperimentato di persona. Una madre buona, e previdente, insomma!
Ahimé, la guerra in Ruanda, e nelle zone limitrofe, che ha promosso i genocidi tribali, se ha fatto e sta facendo strage di uomini, non rispetta di certo questi animali, che sono stati da sempre oggetto di feroci atti di bracconaggio, diminuiti di frequenza ai tempi della Fossey, ma che temo siano ritornati a essere, nel clima infuocato del conflitto, una triste consuetudine. Niente di più macabro dei trofei offerti dai cacciatori di frodo ai turisti facoltosi.
Difatti, le mani di un gorilla adulto come portacenere sembra allietino le sale d’aspetto di alcuni medici statunitensi, o fanno bella pompa in certe ville hollywoodiane di miliardari. Che roba! Mi ha raccontato un amico - devo credergli ? - di aver visto una testa imbalsamata di gorilla appesa al muro, con i denti esibiti ad arte e una espressione di ferocia da cosmesi, in una casa al centro di Tokyo. Spero che quel mio amico scherzasse, ma non ne sono tanto sicuro.
Per concludere, le scimmie antropomorfe sono, come ha scritto la Goodal, l’ombra dell’uomo, “un altro” da noi che ci è “meno altro” di qualsivoglia essere vivente. E’ fatale così che in loro perseguitiamo e uccidiamo una parte di noi stessi, e del nostro passato evolutivo. Mi piacerebbe, intendo terminare in maniera un poco stravagante, che quelle povere mani mutilate, come in un film dell’orrore che ho visto da bambino, magistralmente interpretato da Peter Lorre, una bella notte si animassero, e andassero a prendere a schiaffi i ricettatori.
Perché, dopo tutto, il bracconiere può avere come scusa l’indigenza e la fame che minaccia i suoi figli, ma il tetro collezionista non ha scuse che tengano. Si potrebbe invocare a sua discolpa, se fosse una discolpa possibile, soltanto l’ignoranza più sordida, di una persona che, nel secolo Ventunesimo, abita ancora con la mente tra le nebbie aborigene dei secoli più bui.
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