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SUPERSAGGIO
Con Memorie di una reginetta di provincia la scrittrice femminista Alix Kates Shulman attacca, nel pubblico e nel privato, una società oppressiva e reazionaria
 

La copertina del libro

Ho imparato a non fidarmi della simmetria e del sistema decimale. C'è stato un periodo in cui avrei fatto qualsiasi cosa per la quale avessi avuto dieci buone ragioni, o anche qualsiasi cosa che non c'era ragione di non fare, un periodo in cui non avrei resistito a una sfida. Adesso sono più prudente. Ho figli e responsabilità. Sono diventata sospettosa delle buone ragioni, e ostile alle sfide. L'evidenza dimostra che la natura è probabilmente squilibrata, che 10 non è più vero di 4, che la ragione non vince. Quindi il mio motto è: dubita sempre.

Per condividere quello che ho imparato (e per avere qualcosa d'interessante da fare ora che ho passato i 30 e i figli vanno a scuola) comporrò le mie memorie. (…) Comincerò da una stazione ferroviaria in Europa, mentre sono sul punto di liberarmi del mio primo marito, in modo forse del tutto irragionevole.

Quando l'Orient Express entrò ansimando nella gelida Hauptbahnhof di Monaco - con me che arrivavo da Madrid - pronto a scaricarmi tra le braccia di mio marito, non avevo grandi progetti in mente (…) Non avrei avuto il tempo di studiare l'atteggiamento o le parole. Ormai sapevo che stare a vedere voleva dire esitare, ed esitare voleva dire perdere. Nei miei 4 lunghi anni di matrimonio con Frank m'ero già lasciata scappare troppe occasioni di riconquistare la libertà solo perché avevo preso la mira troppo a lungo.

Questa volta dovevo colpirlo in fronte al primo colpo, o lui avrebbe vinto ancora. Lo sconforto di dover vivere in due tetre camere ammobiliate in quella lugubre città nordeuropea che non aveva neanche l'onore di essere una capitale, m'aveva catapultata verso sud. Frank aveva il suo lavoro; io avevo il mio niente. (…) L'occasione per mettere alla prova la mia onestà si avvicinava alla svelta. Se solo mi avesse dato la metà dei soldi, sarei sparita dalla sua vita. Poteva tenersi l'appartamento e i mobili, e gli alimenti, finire l'anno qui e aspettare gli avvocati di New York. Doveva semplicemente riorganizzarsi.

Io sarei andata a Roma. Gli avrei lasciato decidere cosa raccontare ai nostri amici; poteva escogitare una balla per la sua famiglia. Poteva salvare la faccia come meglio credeva. Alla mia ci avrei pensato io. Mentre il treno si fermava lentamente stridendo, mi guardai per l'ultima volta allo specchio. Né bella né brutta. Stavo perdendo la mia capacità di giudicare, ora che avevo 24 anni. Lisciai la frangia, cotonai un po' i capelli sulla nuca e mi allenai a sorridere. Un bell'aspetto rende tutto più facile. Mi sentivo vecchia, una 24enne sposata e vecchia; sorpassata come la Miss America dell'anno scorso.

Ti scongiuro Iddio, pregavo, fammi rimanere bella anche quando resterò senza un soldo. (…) C'era il leone in persona, proprio come m'ero immaginata, vicino all'obliteratrice, e mi fece un ghigno non appena mi vide, in mano un mazzo di anemoni.
Come se stessi tornando da un viaggetto perfettamente programmato. «Colpiscilo! ». Ma non avevo le parole pronte. (…) «Dio come mi sei mancata. Perché non hai scritto?», chiese.

Ma naturalmente non mi avrebbe lasciata rispondere a una domanda così pericolosa. In cambio chiese subito: «Cosa ti è successo?», relegandomi dal ruolo attivo a quello passivo. Come avrei voluto dirgli che non mi succede mai niente, che sono io che succedo, gli piaccia o no. Come avrei voluto dirgli... «Un sacco di cose», dissi. «Adesso. Diglielo adesso». Ma l'altoparlante s'intrufolò con i suoi «Achtung» e io persi la pazienza. (…) Dovevo usare le sue parole, il suo vocabolario pomposo. (…) «Ti son stata infedele, Frank» - Con aria indifferente spostai la frangia dagli occhi. - «A Madrid».

Non mosse un muscolo, nemmeno per diminuire il suo sorriso. Sapevo d'aver colpito nel segno. Ormai potevo continuare, le parole sarebbero venute facilmente. Era molto meglio dire la verità che cercare di nasconderla. Dopo di che ero sicura che solo le formalità d'un funerale potevano trattenermi ancora per un poco, poi sarei stata libera di andarmene. (…) «Infedele». Era una parola che capiva, un concetto che poteva manipolare, una parola pulita, astratta, intellegibile, che implicava ordine.

Ordine violato, ma pur sempre ordine. (…) Si sarebbe torto le mani, dicendo ai nostri amici: «È stata infedele», avrebbe creduto nella mia corruzione, nella sua purezza, e si sarebbe trovato un'altra moglie. «Vuoi farti buttar fuori, eh, ma non ci riuscirai», minacciò. «Sono ancora tuo marito. Ho dei diritti. Vuoi piantarmi? Allora arrangiati da sola. Non te lo posso impedire, troia. Ma non muoverò un dito per te. Non avrai un soldo! Puoi andar a battere su tutti i marciapiedi d'Europa!»(..)

Quando incominciai la scuola imparai che avrei dovuto scegliere tra i nastrini ai capelli e gli alberi, e che se avessi scelto gli alberi avrei dovuto lottare per conquistarli. Gli alberi, come le colline, appartenevano ai ragazzi. Prima e dopo le lezioni, i ragazzi si sparpagliavano sul cortile della scuola e si impadronivano dei campi di pallone, del frutteto, dello stagno di pattinaggio, della montagnola dove giocavano al “Re del Castello” mentre noi ce ne stavamo sullo spiazzo di cemento all'ombra di mamma scuola. E lì facevamo i giochi per bambine sotto gli occhi protettori dei maestri.

Potevamo saltare alla corda, giocare a palla avvelenata, allenarci negli esercizi tra le sbarre intrecciate all'ombra dell'edificio, giocare a tappo o fare le bolle di sapone - tutti giochi tranquilli, sicuri e qualche volta divertenti che i ragazzi disdegnavano perché li facevamo noi.
Ma più di tutto ci piaceva trafficare con le figurine. (…) Anche se la mia, che era nuova, era una delle collezioni meno sensazionali della scuola, ci tenevo molto lo stesso. Avevo pochi gruppi di 4, praticamente nessuna coppia speciale (anche se avevo una rara collezione di Shirley Temple), ma c'era almeno una carta per categoria, e la mia collezione era aperta al futuro come la mia vita.

Nessuna carta era così strana da non avere il suo posto fisso e perfetto nella mia collezione adattabile all'infinito. Le amavo tutte. E come le mie carte, anch'io ero adattabile. Anche se nella mia infanzia, nel mio quartiere avevo vagabondato liberamente nei boschi e avevo scalato le cime degli alberi, nella prima settimana delle medie imparai a restare senza lamentarmi al mio posto sui gradini o all'ombra della scuola. Imparai ciò che è per maschi e per femmine. (…)

Se scoprivano una ragazza nel loro territorio i ragazzi si sentivano perfettamente liberi di: darle un pugno nello stomaco, o rinchiuderla nel ripostiglio, o non lasciarla scendere da un albero, o legarla all'asta di una bandiera, o frustarle le gambe con le canne, o inseguirla fin giù nel burrone, o alzarle le gonne, o farle lo sgambetto, o sputarle boccate d'acqua in faccia, o infangarla tutta, o sbatterla per terra “per sbaglio”, o tenerle una mano sul naso e una sulla bocca, o tirarle i capelli, o mitragliarla di palle di neve, o «lavarle la faccia» nella neve, o rovinarle i libri, o strapparle i vestiti, o sparpagliare le sue carte preziose, o urlarle parolacce, o lapidarla, o schizzarle fango sul vestito, o invitarla a giocare con delle scuse, o anche solo colpirla, o sputarle addosso, o storcerle il braccio dietro la schiena, o non lasciarla bere alla fontanella. (…) Lo facevano per divertirsi. Lo facevano per affermare il loro potere”.




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