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Il retroscena. Il presidente del Consiglio: "Chi vuol fare cadere questo governo
deve farlo guardandomi negli occhi, assumendosene la responsabilità"
Il Professore all'ultima sfida
"Vado in aula, mi votino contro"
"Da due giorni non riuscivo più a parlare con Clemente"
ROMA - Lo sapeva, lo sentiva. Ed ecco, quando l'imprevedibile previsto è successo, Romano Prodi percorrere la strada annunciata. Contare cosa è rimasto dell'Italia rampante del 2005, vincente con affanno del 2006. Quella che sconfisse Berlusconi e prometteva di cambiare tutto. Verificare una maggioranza che alla Camera ci sarà ancora. Misurarsi a muso duro con una maggioranza che al Senato non ci sarà più. Questa è la tentazione, anche se deciderà se andare fino in fondo all'ultimo minuto. "Fiducia. Rinnovata o negata".
Prodi i suoi voti li cerca da stamattina. "Comunicazione urgente" alle due Camere. Tutto indica che sarà votato con largo margine a Montecitorio, buttato giù con voti mischiati a Palazzo Madama. Aprendo una schizofrenia di cui marcherà l'"anomalia tutta italiana". "Frutto di una legge elettorale imposta dal centrodestra. Loro stessi l'hanno definita porcata. E ora a farne le spese sono gli italiani".
Aspetta di vedere cosa farà Mastella, se ci sarà, e Dini e Di Pietro e il dimissionario Bordon e Fisichella. Voto non su Prodi successore di Mastella ministro della Giustizia, non su Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell'Ambiente criticato pure dal centrosinistra. Voto su Romano Prodi presidente del Consiglio. "Su quel che questo governo ha davvero fatto, può fare, potrà fare o non farà più".
Nella notte, ai vertici di Palazzo Chigi si è studiata la via da percorrere. Poi, dopo le Camere, andare al Quirinale, da un Giorgio Napolitano che come lui sperava in un'altra Italia, dopo tanti anni a guardarla da Bruxelles. A mostrargli cosa è rimasto, cosa è cambiato. E decidere, accettare il futuro. Magari da sconfitto, ma non chiamandosene fuori. Prodi che si fa da parte, il suo peso che si fa sentire su tutti.
Premier ancora forse per poco, il Professore non ha intenzione di mollare. Ha preso domenica la tessera del Partito democratico, di cui è presidente. Non contesta la scelta di Walter Veltroni di correre da solo alle elezioni, lo mette in guardia dalle enfatizzazioni e dallo schema simmetrico con Forza Italia. Berlusconi, dice al segretario del Pd, ha una capacità di unire dopo il voto la sua coalizione che nessuno nel centrosinistra ha.
Le forze non sono uguali, dice il premier. E Prodi non vuole la vittoria di un partito e la sconfitta della coalizione con cui può governare. Il ruolo del suo governo diventa quindi cardine per qualsiasi ragionamento, strategia del presente e del futuro. Se cade, non farà il Cincinnato con nipoti e professori in pensione. Sarà una presenza attiva, un memento su passato e futuro, anche se non coinvolta nel dibattito quotidiano. Molto presente, pesante.
"Chi vuol fare cadere questo governo, - dice - questa coalizione che ha vinto le elezioni deve farlo guardandomi negli occhi. Assumendosi la propria responsabilità. Non con me, non con noi. Con quei milioni di italiani che ci hanno mandati a un posto di servizio. E ora sono sempre più stanchi, nonostante quel che di buono abbiamo fatto. Litighiamo tanto e da tanto tempo che non permettiamo nemmeno più di sognare. Accidenti, siamo qui non per farci servire, ma per servire chi ci permette una vita privilegiata".
Non rabbia né rassegnazione. Disincanto amaro. Era tornato in Italia convinto di unire una sinistra, un centro tutti nuovi, di creare un'Unione che ha decollato solo per le trionfali, illusorie elezioni regionali 2005. Poi Prodi si è sempre più trovato solo a predicare unità in un centrosinistra dove ognuno voleva solo costruire, salvare "il proprio interesse particolare". Mesi di analisi dura, a farsi piacere il navigare a vista, la mediazione continua. Ma da questo fine settimana Prodi aveva capito che ormai la partita era senza speranza. Aveva già persino cercato di elaborare il lutto senza avvolgersi, nascondersi nel lutto. "Non siamo capaci di dimostrare che la politica è volontà di uscire dall'egoismo. Senza essere santi. Guardando un poco più in là del nostro naso".
Domenica alle sette di sera se ne era partito da Bologna convinto che sarebbe stato molto difficile per lui riuscire ancora una volta a salvare un governo che ormai tanti, persino nella sua coalizione, non volevano salvare. Quel maledetto telefonino di Clemente Mastella che non rispondeva. Venerdì, sabato, domenica.
Nessuna risposta. L'appoggio esterno che moriva, Prodi lo aveva capito. Antonio Di Pietro che attaccava come un toro, come se gli equilibri di una coalizione impossibile nulla fossero. Pecoraro Scanio che continuava a sognare di avere una maggioranza di voti a favore in Senato. Masticando amaro non tanto e non solo per ministri ed ex ministri, quanto per il nuovo crollo di popolarità dopo la ripresa di inizio d'anno. Di aver perso quella che era la sua forza, la gente normale, stanca della "casta". E che invece alla fine lo aveva sempre più identificato come il monumento a tutto il negativo. "Prodi colpevole di tutto. Va bene così, almeno servisse a far capire ai miei che cosa succede nel Paese vero".
Con Prodi caduto, la via prevista dal Professore è quella di Berlusconi che farà di tutto per andare subito ad elezioni vaticinate vincenti, idem Mastella e gli altri che vogliono bloccare il referendum e avere le mani libere o sopravvivere come partitini. Napolitano però ha detto sempre che non si può votare con questa legge. Lui - ammesso e non concesso abbia alternative - ha sempre ripetuto che non governerà con altra coalizione rispetto a quello che l'ha eletto. Ora affila le ultime armi, poi vedrà cosa e chi gli resta.
(22 gennaio 2008)
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