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Forumandiano..!!

SAGGIO
IL GOLPE INGLESE / 3- I documenti degli archivi britannici, appena
desecretati gettano una luce cruda sul backstage della Guerra Fredda

A Parigi l'incontro segreto
"Meglio che gli italiani non sappiano"

A Parigi una riunione a 4 (Francia, Usa, Gb, Germania) per mettere
a punto il documento sul futuro dell'Italia e per fermare la "deriva" comunista




Insomma, non c'era solo Berlinguer. Ma in quella primavera fra Londra, Washington e Bruxelles sembra davvero che non pensino ad altro. Il 6 maggio il Fco produce un secondo documento che integra e sviluppa il manuale di metodologia anticomunista del 13 aprile. E tuttavia proseguendo nella lettura si capisce che sull'uso di questi record nei contatti internazionali con gli alleati sorgono dei problemi. Il segretario di Stato si preoccupa delle "implicazioni politiche" di una linea così rigida. Nell'ambito dell'amministrazione britannica, che è pur sempre costituita da laburisti, ci sono delle diverse valutazioni. Quelle che pone all'attenzione del Segretario di Stato il suo consigliere politico David Lipsey suonano ad esempio più moderate e molto meno interventiste: "Se diamo troppa corda ai comunisti potrebbero dichiararsi innocenti oppure impiccarsi da soli. Se invece ci imbarchiamo in un'operazione di linciaggio - è la conclusione - sarà la nostra credibilità democratica ad essere danneggiata, non la loro".

Anche per questo il governo inglese è preoccupato che studi, indagini e relazioni restino al sicuro. "La loro esistenza non deve essere rivelata - è la raccomandazione - La Gran Bretagna non deve essere vista come un governo che interferisce negli affari interni dell'Italia". Ma il 18 maggio, in vista di un vertice Nato a Oslo, qualcosa trapela: un articolo del Financial Times dal titolo "I timori del Foreign Office sull'Italia". Il giornalista rivela che l'atteggiamento degli alleati è stato riassunto in un documento ad hoc. Dalla Farnesina, a questo punto, chiedono spiegazioni, ma a Londra fanno i vaghi, ridimensionano: il caso Italia non è nell'agenda ufficiale di Oslo, non c'è nessun paper, del Pci si parlerà al massimo "nei corridoi".

Più in generale, al di là delle necessità diplomatiche, pare anche di cogliere una sottile linea di distinzione fra l'atteggiamento britannico e quello americano. Oltre una certa prudenza che porta Crosland e il premier Callaghan a non fare mosse avventate prima del 20 giugno, il Foreign office si preoccupa soprattutto dell'unità degli alleati, il che significa da un lato incoraggiare i francesi e i tedeschi a una maggiore presenza sulla questione italiana e dall'altro di frenare gli americani, soprattutto Kissinger.

Del Segretario di Stato Usa i colleghi britannici sembrano poco apprezzare certe intemperanze, sottolineano che in privato usa uno "strong language", un linguaggio forte; come pure si concedono una qualche distaccata superiorità quando gli pare che Kissinger si comporti più da professore di storia che da stratega: "Così rischia di perdere di vista le implicazioni immediate delle sue parole - nota l'ambasciatore inglese a Washington, Peter Ramsbotham - sviluppando una sorta di teoria del domino europeo sul lungo termine". Ma gli americani, imperterriti, non solo seguitano a spingere sulla loro linea, ma in un memorandum del 4 giugno si mostrano anche piuttosto seccati dal fatto che mentre gli europei sono indecisi sul da farsi, loro rischiano di figurare sempre e comunque come il "bad cop", il cattivo poliziotto della situazione, tipo in Cile nel 1973.

A pochi giorni dalle elezioni tutto è ancora incerto: "I sondaggi italiani sono notoriamente inaffidabili". Intanto Berlinguer dichiara di accettare l'ombrello della Nato e Montanelli invita a turarsi il naso e votare Dc. E con questo si arriva finalmente al 20 giugno. I risultati non potrebbero essere più ambigui. La Dc al 38,7 per cento e il Pci al 34,3 risultano i "due vincitori", come li definisce Moro. Ma questi due vincitori, secondo un'analisi del Fco, sono anche "prigionieri l'uno dell'altro".


Aldo Moro con Henry Kissinger


Una settimana dopo, al vertice di Puertorico, riservato alle sette potenze più industrializzate del mondo, l'Italia si presenta senza un governo. Ci sono Moro e Rumor, ma solo per salvare le forme. Gerald Ford, Callaghan, Schmidt e Giscard d'Estaing si incontrano alle 12,45 di domenica 27 giugno al Dorado Beach Hotel per un pranzo di lavoro e qui si verifica un pietoso incidente. Lo descrive brutalmente Campbell, futuro ambasciatore britannico a Roma: "Quando arrivano per il lunch, ai due sfortunati ministri italiani viene impedito di entrare". È il massimo dell'umiliazione.

Appena chiuse le porte, si affronta il "problema Italia". Il verbale di quell'incontro viene redatto dal funzionario Fergusson. Pur riconoscendo che gli italiani devono decidere da soli, i quattro capi di Stato sono d'accordo che occorre fare tutto il possibile perché i comunisti restino fuori dal potere. Giscard propone di elaborare, in una prossima riunione da tenersi a Parigi, una bozza di programma di governo che gli italiani dovranno accettare in cambio di un sostanzioso aiuto finanziario.

Quella riunione si tiene effettivamente a Parigi, all'Eliseo, l'8 luglio del 1976. Il padrone di casa è il Segretario generale aggiunto della Presidenza della Repubblica francese Yves Cannac. Per gli Usa c'è Helmut Sonnenfeldt, consigliere del Dipartimento di Stato e braccio destro di Kissinger; per i tedeschi arriva Gunther Van Well, alto funzionario del ministero degli Esteri di Bonn; e infine, per la Gran Bretagna, il sottosegretario del Foreign Office, Reginald Hibbert.


Giorgio Napolitano e Nilde Jotti


È a quest'ultimo che si deve il resoconto, a tratti anche abbastanza scanzonato, di un incontro in cui "ognuno ha i suoi buoni motivi per mantenere il Pci fuori dal governo". Giscard vorrebbe un "centrodestra riformista" in Italia perché teme la spinta che a casa sua favorirebbe Mitterrand. Il rappresentante di Schmidt, d'altra parte, punta sulla rinascita del centrosinistra perché un successo di Berlinguer potrebbe spaventare il suo elettorato e aprire le porte a una vittoria dei democristiani nelle imminenti elezioni tedesche. E poi ci sono gli americani che appoggiano decisamente una Dc rinnovata. Insomma, un po' di confusione.

In più, fa notare Hibbert con evidente disappunto, mancano traduttori e dattilografi che lavorino in inglese e soprattutto c'è una gran fretta perché il rappresentante di Kissinger deve scappare all'aeroporto. Così, "Kannac ci invita a pranzo al ristorante Ledoyen, ma l'urgenza è tale che non facciamo neanche in tempo a leggere il menu". In un angolo, Sonnenfeldt si concede una battuta sul clima carbonaro di quel pranzo: "Siete sicuri che l'ambasciatore italiano non sia qui? Se ci beccano, è chiaro che è per parlare di Berlino".

Chissà che cosa sapevano Moro, Andreotti o Berlinguer di tutto questo. O che cosa immaginavano. Da quel che si capisce l'incontro di Parigi, che Hibbert definisce "sticky", cioè difficile, insidioso, appiccicoso, fa pensare in realtà a una specie di ultimo avviso all'Italia, che è anche una prova di commissariamento. Le delegazioni producono una bozza d'intenti che a distanza di trent'anni finisce per avere un certo peso storiografico. S'intitola "Democracy in Italy" e in pratica espone ai futuri governanti italiani quello che devono fare. Così comincia: "Malgrado gli ulteriori progressi del Pci, le recenti elezioni consentono di mantenere in vita la democrazia in Italia. Ma è arrivato il momento di mettere fine a questa deriva". La parola usata è "slide", uno scivolamento che porta a una caduta, al collasso italiano.

I quattro grandi dell'occidente non solo alzano il tradizionale muro di fronte all'ipotesi di un governo con il Pci, ma nella riunione segreta di Parigi intervengono anche sulla formula e sulla maggioranza che dovrà avere il nuovo dicastero: a "guida dc", con "partiti non comunisti e non fascisti". E quindi provano pure a delineare le caratteristiche della loro compagine ideale: "Un piccolo gruppo omogeneo di uomini di prestigio che lavorino in squadra". Nelle carte c'è addirittura il programma, che tocca amministrazione pubblica, giustizia, sicurezza, economia e politica estera. Si scende nei particolari: un piano a medio termine per il risanamento della finanza pubblica e riduzione dell'evasione fiscale; è indicata la necessità di tentare un accordo con imprenditori e sindacati. C'è anche la lotta alla corruzione e perfino un accenno al "nepotismo".

Ma soprattutto si fa notare, sotto un paragrafo dal titolo "The Christian democratic party", un appello che di nuovo suona come un atto di sottomissione richiesto alla classe di governo del "partito che ha esercitato il potere per trent'anni e rimane il più forte dopo le elezioni". Per battere il Pci, la Dc dovrebbe (should) ripulire la sua immagine di partito tollerante della "prevaricazione e del sotterfugio", ha il dovere di "liberarsi delle pecore nere", la necessità di "mettere ordine a casa sua", di svecchiarsi e arruolare giovani, assicurare maggiore spazio alle donne, ai lavoratori e ai sindacati. Suo compito è anche quello di contestare al Pci l'egemonia culturale "riconquistando l'intellighenzia, le università e i media". Il giorno dopo, 9 luglio, ore 23,20, l'ambasciatore inglese a Washington telegrafa a Londra: "Kissinger approva il paper "Democracy in Italy"". Da Londra, forse, il premier Callaghan un po' si spaventa a leggere quelle carte: "Dobbiamo usare molta cautela considerando il grande danno che ne verrebbe se la loro esistenza divenisse pubblica. Sarebbe un'intrusione diretta negli affari di uno stato europeo nostro alleato". E aggiunge: "Ogni fuga di notizie finirebbe per essere un regalo ai comunisti italiani".

E così potrebbe anche concludersi il grande film del 1976. Poi certo, molte altre cose accadono - e il Foreign Office le registra con la consueta diligenza. Il Pci che rimane sulla soglia del potere. I democristiani che continuano a traccheggiare inventando formule quasi intraducibili, per cui l'andreottianissima "non sfiducia" diventa "non no-confidence". C'è anche un nuovo segretario socialista, il quarantenne milanese Bettino Craxi. L'ambasciatore Millard, che ha l'occhio lungo, lo segnala subito come una luce in fondo al tunnel del caos italiano. Si stabilisce che una sua visita a Londra "sarebbe auspicabile". Arriva l'autunno e a Bruxelles, davanti a Kissinger, il Segretario di Stato britannico Crosland parla "warmly", con calore, del "Signor Craxi".

A Roma il successore di Millard è Alan Hugh Campbell. A fine anno l'ambasciatore scrive la tradizionale Christmas letter al Foreign Office: "Pur immersi nella tristezza, frustrazione, incompetenza, corruzione, gli italiani continuano a essere un popolo duttile e molto operoso. Ma condivido l'idea che non siano maturi per la rivoluzione". E c'è quasi un salto poetico: "Forse, questo spiega la sofferenza che ho osservato sul volto di Berlinguer, l'altro giorno, quando me lo sono trovato seduto vicino durante una cerimonia".

(3 - fine)

(torna alla seconda parte)

(torna alla prima parte)

(13 gennaio 2008)
Repubblica.it
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