Il leader Ian Curtis suicida alla vigilia del tour sulla lapide il suo inno "l’amore ci farà a pezzi"
Dei Joy Division restano due album, uno bianco e uno nero, cupi, ossessivi, densi di malinconie senza rimedio. E qualche uscita postuma, a partire da Still, pubblicato nel 1981, un anno dopo la tragica fine di Ian Curtis, cantante e leader della band. Ma anche così, i quattro di Manchester hanno scritto pagine importanti della storia del rock. Intanto perché, risorti come New Order sotto la guida di Bernard Sumner, hanno colto in maniera esemplare alcuni cambiamenti decisivi del rock negli ultimi venticinque anni, declinando le chitarre nei modi e nei tempi dell'elettronica, aprendosi ad una dance intelligente, passando dai club gothic ai grandi festival estivi. E poi per l'influenza che la loro musica ha avuto su più generazioni di artisti di culto, dai Cure agli U2, da Moby agli Editors.
La storia
Erano quattro ragazzi del giro alternativo di Manchester, divisi tra scuola, negozi di dischi, concerti. E il 4 giugno 1976, dopo l'esibizione dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall, decisero di cominciare a suonare insieme: in pieno fermento punk, guardavano più indietro, ai Roxy Music, ai T. Rex, a David Bowie, da cui presero il primo nome, Warsaw. Verso la fine del 1977, dopo vari cambi di formazione, si ribattezzarono Joy Division: così si chiamava la sezione dei lager nazisti dove erano ospitate le prostitute. Il primo disco con quattro brani fu pubblicato nel maggio del 1978. Nessuno gridò al miracolo, ma molti furono colpiti dal curioso suono della band: una sezione ritmica in evidenza, chitarre ridotte al minimo, astrusi echi di sintetizzatori, e su tutto la voce baritonale e monotona di Ian Curtis.
Bianco e nero
Unknown Pleasures (1979) è il disco del debutto: trentotto minuti, dieci sole canzoni, una copertina bianca e nera con le pulsazioni di luce di una stella appena scoperta. Tra qualche mese l'album sarà ripubblicato, rimasterizzato e con l'aggiunta di un cd dal vivo, ma già da anni riviste e siti specializzati lo inseriscono tra i dischi più importanti della storia del rock. Moby e i Red Hot Chili Peppers hanno ripreso New Dawn Fades, mentre i Cure si sono ispirati a questo album per i giri di basso dei loro brani più famosi, da The Forest in poi. E i testi: desolati, ossessivi, che raccontano di solitudine e confusione, come accadrà per tutto il movimento gothic, destinato a fiorire qualche anno più tardi. Intanto i Joy Division si spingono fuori dal Regno unito e tengono concerti anche in Francia, Germania, Olanda.
Il disco riceve critiche positive e vende discretamente, ma Ian Curtis si ritrova sempre più spesso preda di crisi epilettiche e gli spettatori non capiscono se i suoi movimenti frenetici sul palco sono intenzionali o un sintomo della malattia.
Il seguito di Unknown Pleasures viene registrato nel 1980 a Londra: più maturo e ancora più desolato, Closer esce qualche settimana dopo il suicidio di Curtis, che si impicca nella cucina della sua casa di Manchester il 18 maggio, alla vigilia di un tour che avrebbe dovuto far conoscere i Joy Division al pubblico americano.
Parole e immagini
Questa è la storia come la racconta la vedova Deborah Curtis, in un bel libro pubblicato anche in Italia (Così vicino, così lontano. La storia di Ian Curtis e dei Joy Division, Giunti, pp. 240, euro 12), da cui ora Anton Corbijn, fotografo e regista di video per U2, Depeche Mode, Nick Cave e mille altri, ha tratto un film, Control. Presentato a Cannes e in uscita ad ottobre in tutta Europa, è solo l’ultimo tassello di un revival che della nostalgia ha poco o niente. La musica della band ricompare in questi mesi reincarnata nelle canzoni degli Editors, promettente band scozzese con due begli album alle spalle, oppure nell’art pop dei newyorkesi Interpol, o nelle ballate noir dei National, pure americani. Lui, Ian Curtis, intanto riposa nel paradiso degli eroi rock, accanto a Jim Morrison, Tim e Jeff Buckley, Kurt Cobain. A ricordarlo, qui sulla terra, una lapide con i versi della sua canzone più famosa: Love will tear us apart, “l’amore ci farà a pezzi”.
BRUNO RUFFILLI
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