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Negli Anni 80 era dato per spacciato adesso con “Live in Dublin” ritrova tutta la sua forza
ANDREA SCANZI
C’è stato un momento, più o meno a metà degli Anni 80, in cui Bruce Springsteen è sembrato al capolinea. E’ accaduto quando le radio italiane fecero passare Born in the Usa, canzone ferocemente pacifista e quasi antipatriottica, per un inno ai marines scritto dal fratello maggiore di Bon Jovi. La critica più frettolosa riscontrò prove del tramonto springsteeniano nella svolta romantico-elegiaca di Tunnel of Love (1987), come pure nella rottura momentanea con la E-Street Band, coincisa con l’unico disco veramente brutto: Human Touch, anno 1992.
Poi però è accaduta una cosa strana: Springsteen ha concretizzato l’impossibile. Non si è curato dei fuochi fatui del rock da cartolina. Si è nuovamente consegnato al folk spartano (The Ghost of Tom Joad, Devils & Dust). Quando sembrava «solo» un Woody Guthrie contemporaneo, ha riattaccato la spina (e riunito la band) agitando le macerie dell’11 settembre (The Rising). E per quanto gli anni passassero – siamo a 57 – sul palco non sembrava invecchiare mai. Meglio: sembrava invecchiare bene. Un ossimoro, per i rocker.
Esce ora Live in Dublin, doppio cd e dvd, testimonianza delle 3 serate (17-19 novembre 2006) al The Point di Dublino. Ventitre brani, in larga parte ripresi dal progetto delle Seeger Sessions, più alcuni inediti e qualche evergreen. Folk, blues, dixieland, country, swing, gospel, rock. E’ uno Springsteen che «riporta tutto a casa», come Bob Dylan nel 1965, che rilegge i classici (When the Saints Go Marching In) e prolunga il suo stato di grazia. Giustamente il LA Times ha scritto che «forse in passato, in qualche luogo, una più intensa ed esilarante convergenza della musica con il momento storico si è compiuta, ma in quasi 40 anni di assidua frequentazione di concerti non ci era mai capitato di assistere a qualcosa di simile».
C’è, in questo concerto, una forza spaventosa. Una voglia di resistere, di comunicare, di esplorare che quasi sconcerta. Una perfetta convergenza tra musica e momento storico, una piena adesione al «modello» del cantastorie, interessato – anzitutto emotivamente – alle vicende di chi non ha mai goduto della ribalta. Come i vecchi pionieri di un tempo, come un Johnny Cash meno pessimista e ugualmente accompagnato dalla moglie (ieri June Carter, oggi Patti Scialfa), Springsteen esplora il suo West di suoni e memoria, fantasmi e antieroi.
Le Seeger Sessions erano nate come ritrovo informale tra amici, ma la spontaneità del progetto non è stata sbiadita dalla routine del tour. La band, incontenibile, è un’orgia di tromboni, dobro, banjo e mandolini. Per un po’ Bruce indossa una giacca improbabile, poi la toglie e attacca una We Shall Overcome da brividi.
Live in Dublin si rivela come la più gioiosa e corale delle infinite rivoluzioni di Springsteen, un musicista che non ha mai frainteso lo scorrere del tempo con la resa. Sono passati più di trent’anni da Born to run: ebbene, la corsa continua.
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