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L'eterna eresia
di Claudio Fabretti + Aa. Vv.





Quarantacinque anni di rock'n'roll ruvido e stradaiolo. Tra trionfi, tragedie e resurrezioni. Una simbiosi completa, che non si limita all'aspetto musicale: nessuno meglio dei Rolling Stones ha incarnato il modus vivendi, la frenesia e gli eccessi del rock. In occasione dell'unica data italiana del loro tour, riviviamo l'epopea della band che ha venduto l'anima a sua maestà satanica per acquistare l'eterna giovinezza

"World's greatest rock'n'roll band". Forse, per una volta, la (auto)definizione più abusata è anche quella giusta. I Rolling Stones non sono soltanto un miracolo di longevità: sono la quintessenza di un intero genere - il rock - che hanno contribuito a forgiare e rendere immortale, ripartendo proprio dalle sue radici - i ritmi tribali, il blues, il jazz - e coniando un sound potente e decisivo per le generazioni successive. Una simbiosi completa, che non si limita all’aspetto musicale. Nessuno meglio di loro, infatti, ha incarnato il modus vivendi, la frenesia e gli eccessi del rock. Una fiamma che continua a riaccendersi puntualmente a ogni nuova tournée, rinnovando un incantesimo che troppi dischi mediocri degli ultimi anni rischiavano di spezzare.

Brutti, sporchi e cattivi

I Rolling Stones esordirono nell’arena del rock in piena era beat, come l’alternativa "brutta sporca e cattiva" ai Beatles. Ne nacque subito la più scontata delle contrapposizioni: i garbati e simpatici sudditi di Sua Maestà contro i teppisti insolenti della suburbia londinese; i baronetti del conformismo pop contro le anime dannate del rock. Un contrasto tanto artefatto (per la fortuna dei discografici) quanto mendace, se si pensa ad esempio che i Beatles erano i veri figli della working class, mentre gli Stones scaturivano dalle velleità artistiche dei rampolli irrequieti della borghesia londinese. Entrambi, poi, condividevano ambienti e gusti musicali: fu Harrison a contattare la Decca per il primo provino degli Stones, mentre i Beatles regalarono ai futuri rivali il primo singolo; entrambi scivolarono negli eccessi e nelle droghe, inseguirono le sorgenti della musica americana, la psichedelia e l'utopia hippie, la contestazione e la stardom. Eppure, quello tra il quartetto di Liverpool e il quintetto di Londra resterà per sempre il più celebre dualismo della storia del rock.

La musica dei Rolling Stones affondava le radici nel blues inquieto di Robert Johnson, John Lee Hooker, Bo Diddley, e in un sano "rollare" di marca Presley & Holly; ma fu il modo in cui si avvicinarono a questo tipo di musicalità a provocare l’iniziale sdegno dei perbenisti. Rock "stradaiolo", in tutto e per tutto: nella melodia, nel look, e nel loro stesso stile di vita. Uno stile sublimato dalla stessa figura del frontman, Mick Jagger, satiro sguaiato e lascivo, capace di esprimere tutte le nevrosi e le lusinghe del rocker, in una rivisitazione animalesca della figura del crooner soul.

Provocatori per natura e per divertimento, i Rolling Stones esaltarono il loro spirito basilare fino a farlo divenire un autentico fatto di costume, ribellandosi agli stilemi imperanti, impomatati di tradizionalismo e bigottismo. Infarcivano i loro testi di un depravato senso di giovanilismo, riuscendo a essere perfettamente credibili in quelle storie ribollenti di eccessi, perché molte volte i personaggi principali di quelle storie erano loro stessi. Il loro era un linguaggio diretto, senza molti abbellimenti stilistici, ma in quelle parole si riconoscevano tutti quei giovani che si sentivano imprigionati nell’asfittica società dell’epoca. Il parlare di esperienze sessuali ai limiti (e al di là) della pornografia, il teppismo urbano, i lucidi e drammatici racconti di vita avvelenata in squallide camere ospedaliere, o ancora, e più semplicemente, il raccontarsi all'insegna del divertimento, con la sfrenata bramosia di farlo ora, adesso e subito, non erano altro che l'invocazione di chi voleva evadere dal grigiore quotidiano.

La musica stoned non è mai stata particolarmente elegante dal punto tecnico, era una costruzione sonora poggiante su riff ripetuti all'infinito: pochi accordi e scarsa attenzione verso certe spettacolarità tecnico/strumentali. Eppure ogni strumento era un piccolo show: la batteria marziale e slanciata di Watts, la chitarra ruggente e sinuosa di Richards, il cantato black lussurioso di Jagger, il basso cavernoso di Wyman; in più, nella prima fase, il genio eclettico di Jones, capace di esplorare i suoni dell’organo, del dulcimer, del sitar e dei flauti dolci.

Heart of Stones

Il primo nucleo della band si costituisce a Londra agli inizi degli anni 60, quando il cantante Michael Phillip "Mick" Jagger (1943, Dartford, Gran Bretagna) e il chitarrista Keith Richards (1943, Dartford, Gran Bretagna), compagni di scuola fin dalle elementari, formano con Dick Taylor, Bob Beckwith e Allen Etherington i Little Boy Blue And The Blue Boys, uno dei tanti gruppi ispirati al blues di Chicago. All'organico si aggiunge subito il polistrumentista Brian Jones (Lewis Brian Hopkins-Jones, 1942, Cheltenham, Gran Bretagna). Jagger e Richards sostituiscono gli altri tre con il chitarrista Geoff Bradford, il pianista Ian Stewart e i batteristi Tony Chapman e Mick Avory (quest'ultimo poi confluito nei Kinks).

Nella prima fase della storia, l'anima degli Stones è Brian Jones. Dotato di un prodigioso talento per la musica (fin da ragazzino sapeva già suonare di tutto, dall'organo al sassofono, e coltivava una passione sfrenata per gli spartiti jazz di Charlie Parker), Jones vantava anche il curioso primato di aver concepito ben sei figli da altrettante ragazze nell'arco di un decennio (il primo a 15 anni). Inguaribile provocatore e anticonformista, capelli lunghi e sguardo impertinente, incarnava in tutto e per tutto la figura del rocker dannato, cresciuto "on the road".

Il debutto della band avviene il 12 luglio 1962 in uno dei templi del rock: il Marquee di Londra. Nel frattempo, si uniscono al nucleo originario Bill Wyman (William Perks, 1936, Londra), ex-bassista dei Cliftons, e Charlie Watts (1941, Islington, Gran Bretagna), batterista della Blues Incorporated di Alexis Korner. Ribattezzatisi The Rolling Stones (da una celebre canzone di Muddy Waters), attirano l’attenzione del manager Andrew Loog Oldham, che procura loro un contratto con la Decca ed estromette dalla formazione Stewart, che diventerà road manager del gruppo e membro aggiunto. Sarà proprio Oldham a coniare il celebre slogan "Lascereste che vostra figlia uscisse con uno degli Stones?".

La musica dei Rolling Stones è impudente e selvaggia come la loro immagine. E attinge alle sorgenti blues del rock'n'roll. Il primo singolo, "Come On" (1963), è la cover di un brano di Chuck Berry, il secondo 45 giri è un gentile omaggio dei "rivali" Lennon e McCartney ("I Wanna Be Your Man"), ma è "Not Fade Away" (di Buddy Holly) che, nel giugno 1964, ottiene i primi positivi riscontri di vendite.
I cinque successivi singoli (tra cui "Little Red Rooster", "The Last Time" e "Get Off My Cloud") contendono la vetta delle classifiche agli hit dei Beatles.

Nella luccicante Swingin' London degli anni 60, i Rolling Stones rappresentano l'anima nera e sotterranea della città. Quella che si nutre di baccanali assordanti nei club underground. Quella che vibra della rabbia dei bassifondi, dei sobborghi più violenti e degradati. La loro musica, tuttavia, riesce a far breccia su un pubblico molto più ampio, grazie alla straordinaria abilità tecnica di un ensemble che non si regge solo sul genio di Jones, ma anche sul chitarrismo selvaggio di Keith Richards, mentre Jagger, con il suo crooning satanasso, si imporrà come uno dei più grandi cantanti, frontman e performer di tutti i tempi.

It’s only rock’n’roll...


Il graffiante album d'esordio, Rolling Stones (1964), è in realtà la rielaborazione di alcuni grandi classici del rhythm and blues e del rock’n’roll, tra cui "I'm A King Bee" (Slim Harpo), "Carol" (Berry), "Route 66", "I Just Want To Make Love To You" (Dixon), ma presenta anche il primo brano firmato Jagger & Richard: "Tell Me".

In questa fase, tuttavia, la band si esprime soprattutto su 45 giri. Come con "It's All Over Now", versione di un brano di Bobby Womack incisa a Chicago, ma soprattutto con due cover di Dixon, "Time Is On My Side" e "Little Red Rooster", e due interessanti composizioni originali: "Heart Of Stone" e "Good Times Bad Times". Questi ed altri brani vengono raccolti in Rolling Stones n. 2 (che negli Usa si chiamerà Now).

E' il 1965, però, a segnare l'inizio del mito degli Stones, grazie a un trittico di singoli folgorante: "The Last Time" (febbraio), "(I Can't Get No) Satisfaction" (maggio) e "Get Off Of My Cloud" (settembre), tutti nel segno di un blues contagioso, propulso dai riff distorti di Richards e dal canto sguaiato di Jagger.
E' soprattutto "(I Can't Get No) Satisfaction", inno sensuale scandito da un riff-killer, a impazzare su entrambe le sponde dell'Atlantico, rimanendo per quattro settimane in testa alla classifica di Billboard.

A scandalizzare il pubblico sono anche i loro concerti incendiari (memorabile quello finito in rissa a Berlino nel 1966, dopo un passo dell'oca nazista messo in scena da Jagger), i continui atteggiamenti provocatori, lo stile di vita depravato, all'insegna di sesso, violenza, alcol e droga, i flirt scandalosi (celebre e infelice quello di Jagger con Marianne Faithfull, prima di tante queens of the Stones age sedotte e abbandonate). Una spettacolarizzazione cui il rock mai più si sarebbe sottratto e che, ahimè, dalla seconda metà degli anni Settanta, avrebbe inghiottito la creatività musicale del gruppo stesso.

Le loro canzoni sono affollate di personaggi turpi e dissoluti: squilibrati, tossicomani psicopatici, prostitute, delinquenti. Eppure il mito dei Rolling Stones non è solo violenza e depravazione. Jagger e compagni, infatti, sanno anche commuovere con un paio di ballate struggenti come "Play With Fire" e "As Tears Go By". Si avvicina il coronamento di un lento percorso che li aveva visti partire dalla reinterpetazione di classici della musica afroamericana (blues e il più recente r&b) per approdare alla maturità di un songwriting personale e incredibilmente espressivo.

Il passato del gruppo e i primi anni Sessanta, con l'esclusività del 45 giri, sono ormai lontani. I Beatles hanno dimostrato pochi mesi prima (il 3 dicembre del 1965, per la precisione, con la pubblicazione di "Rubber Soul") come si possa focalizzare l'attenzione sull'intero album invece che su isolati (per quanto numerosi) hit da classifica, e da qui in poi, nell'arco di soli cinque anni, il rock, sdoganato da ogni vincolo creativo, avrebbe sperimentato infinite metamorfosi di indisciplinata libertà, a cui Jagger e soci avrebbero partecipato attivamente.

Il cuore di tenebra


Ecco allora Aftermath (1966), primo album degli Stones a contenere solo brani scritti dalla coppia Jagger/Richards. Anche gli arrangiamenti si fanno più ricchi. Alla sezione chitarra-basso-batteria si aggiungono strumenti come il dulcimer, le marimbas, il sitar, il flauto e ogni tipo di tastiere.
Il blues più sporco, fetido e misogino si alterna al country rurale tinto di venature folk, Robert Johnson incontra insomma Hank Williams e il consolidato astro dylaniano per dar vita a uno dei più grandi esempi di blues bianco che la storia ricordi.
"Paint It Black", con il suo rutilante incedere tribale e il sitar magico di Jones, è il manifesto programmatico della poetica degli Stones: il cuore di tenebra è non solo necessaria condizione umana da accettare passivamente, ma è attiva scelta della volontà (di potenza?), libera presa di posizione contro il perbenismo borghese degli adulti; riecheggiano ancora le minacciose parole: "I see a red door and I want it painted black/ No colors anymore I want them to turn black…", l'impressione è quella di una lussuriosa appartenenza al demonio.
"Stupid Girl" rappresenta il gentil sesso come icona senz'anima dedita alla cura del proprio corpo, esprimendo il piacere voyeuristico tutto maschile di fronte all'universo femminile, a volte in termini misogini, altre volte come sottomissione romantica (la millenaria dicotomia donna puttana/donna angelo). La musica riecheggia un r&b dal sapore fifties, sporcato dalla base funky di basso e batteria. "Lady Jane" è una dolce elegia dal sapore medievaleggiante, che mantiene l'ambiguità circa l'identità di colei a cui è indirizzata (donna o marijuana?).
Uno degli apici del disco è "Under My Thumb", base jazz-funk con aggiunta di vibrafono (a cura di Jones), cantato trasportato degno del miglior crooning blues e soul, chitarra spezzata e composta, testi sprezzanti e ancora attraversati da una forte misoginia: un pezzo impregnato di quella innocenza incosciente dei Sixties. "Doncha Bother Me", "Think" e "Flight 505" sono tre classici nel loro riprendere gli stilemi dei generi: il blues rurale il primo, il blues-rock il secondo, il jazz fumoso declinato in chiave beat il terzo. Il volo 505 si inabissa nel mare trascinando con sé anche il protagonista, raffigurando i timori e il fallimento di un'intera generazione.
"High And Dry" è un perfetto stomp di passaggio, che traghetta verso la morbida psichedelia acustica di "I Am Waiting". Ma è il conclusivo "I'm Going Home" il piatto forte della seconda facciata, un pezzo che si estende per oltre dieci minuti e che congiunge le matrici blues del sound degli Stones con la incipiente ventata psichedelica: il ritorno a casa si protrae in una lunga jam vocale senza aver mai veramente luogo, rievocando un altro dei maestri-fratelli di Jagger, Jim Morrison, di cui egli può a buon diritto essere considerato la controparte inglese.

Il primo centro su Lp non interrompe però la teoria di singoli di successo: la blasfema, elettrizzante "Mother's Little Helper" e il sensuale boogie di "Let's Spend The Night Together", sorretto dal bel riff di piano di Ian Stewart (il pezzo sarà censurato dai media a tutto vantaggio del lato B, la languida "Ruby Tuesday") tengono alto il mito, mentre le sceneggiate di Jagger sul palco (il primo album dal vivo, Got Live If You Want It!, viene pubblicato solo sul mercato discografico statunitense) e i clamorosi arresti per droga di Jagger, Richards e Jones (agli inizi del 1967) riempiono le cronache.

Gli hippie flippati

Prolifici ormai non solo di 45 giri, ma anche di album, gli Stones pubblicano nel 1967 l'accoppiata Between The Buttons-Their Satanic Majesties Request, due lavori usciti sulla scia della febbre psichedelica inoculata in Gran Bretagna da Kinks e Pink Floyd ed esplosa a livello internazionale con "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band" dei Beatles.

Between The Buttons è ancora un passo indeciso nei nuovi territori. Non a caso, nell’edizione americana, sfoggia un paio di singoli assolutamente old-style: le sopraccitate "Let's Spend The Night Together" e "Ruby Tuesday", a scapito di "Back Street Girl" e "Please Go Home", che invece comparivano nella versione uscita in Inghilterra. Una scelta comunque fortunata, visto che nelle classifiche americane l’album raggiungerà la seconda posizione, diventando disco d'oro.
La tracklist alterna episodi boogie a digressioni jazzy: "Something Happened To Me Yesterday", "Connection" e "Cool, Calm And Collected" (quest’ultima impreziosita da un grande assolo vocale di Jagger) sono sintomatiche di questo nuovo corso, in cui organo e piano paiono prendere il sopravvento. E se "She Smiled Sweetly" ricalca i canoni di "Ruby Tuesday", indulgendo su atmosfere soffuse, "Miss Amanda Jones" inietta massicce dosi di adrenalina rock, mentre lo psych-blues di "All Sold Out" esplode a ritmo di trombone, trafitto dai feedback di chitarra e dalle dissonanze di piano.
Contribuiscono in modo rilevante al sound del disco tre musicisti di spicco come Ian Stewart (pianoforte e organo), Nicky Hopkins (piano) e Jack Nitzsche (pianoforte e harpsichord).

Mentre spopola la guru-mania e il viaggio in India diventa praticamente un pellegrinaggio obbligato, anche Jagger si dichiara – più o meno credibilmente - seguace del Maharishi Mahesh Yogi, dando sfogo alla sua vena mistico-satanico-orientaleggiante in Their Satanic Majesties Request.
Nel gioco a distanza di invidie e richiami alla Madre India, i Rolling Stones appaiono un po’ a disagio. Gli acidi e l'utopia hippie non si addicono alle loro corde. La loro psichedelia bislacca non convince i fan né la critica (quella inglese la bolla apertamente come "rubbish"), e forse neppure loro stessi, se è vero che lo stesso Jagger dirà del disco: "E’ pieno di robaccia. Avevamo avuto troppo tempo a disposizione, troppe droghe ...". Eppure, anche in un parto così bizzarro, non mancano i gioielli, come "She’s A Rainbow", luminoso saggio di pop psichedelico infiammato da trombe, archi e un piano da carillon (a cura di Hopkings), o "2000 Man", con il suo folk alla Donovan cadenzato da sghembi beat elettronici, o ancora "Sing This All Together (See What Happen)", con i suoi deragliamenti lisergici di matrice free-form. E ci sono anche le suggestioni folk-rock di "Dandelion" e il vaudeville alla Kinks di "Sing This All Together" a riscattare passi a vuoto piuttosto imbarazzanti, dalla fiaba sconclusionata di "Citadel" agli effettini para-floydiani di "The Lantern".
Un album discontinuo e caotico, insomma, che tuttavia fa balenare il talento ormai maturo e sfacciato di un ensemble che non teme più nulla, neanche le imprese più temerarie.

Street fighting band

Primavera del 1968. Le piazze delle grandi capitali europee pullulano di studenti arrabbiati, a Parigi ci sono le barricate e da Berlino riecheggia lo slogan "Vogliamo tutto e lo vogliamo adesso". I giorni della pace e dell'amore universale lasciano il posto a quelli della rabbia. I Rolling Stones, con la consueta furbizia, si buttano anima e corpo nel clima arroventato, tanto che Mick Jagger arriverà addirittura a partecipare ad alcune manifestazioni contro la guerra in Vietnam.
E’ il momento giusto per un disco come Beggars Banquet. Fin dalla suicida copertina, censurata negli Stati Uniti dove il disco uscirà con una virginale copertina bianca, gli Stones dimostrano di volersi riappropriare dell'immagine di "brutti, sporchi e cattivi", visto che quella di hippie flippati non ha portato loro molta fortuna. Tutto torna a essere pura polpa blues. Un sound spesso acustico, sostenuto dalla robusta sezione ritmica, dall'immane lavoro pianistico di Nick Hopkins e dalla tagliente chitarra di Richards. I testi, oltre ai soliti riferimenti al sesso e alla droga, danno voce al malcontento giovanile e grondano di empatia verso la classe operaia. Mai più i Rolling Stones saranno così rivoluzionari e pericolosi.
Il capolavoro del disco è l’iniziale "Sympathy For The Devil": un sabba demoniaco a ritmo di samba, un'ossessione percussiva guidata dal fraseggio pianistico di Hopkins (forse il più grande sessionman della storia del rock) e dalle stilettate della Telecaster di Keith Richards, tesa come non mai; Mick Jagger si cala alla perfezione nei panni di Lucifero, e da vero messia degli inferi riscrive la storia dell'umanità. Nell'acustica ed elegante "No Expectations ", Brian Jones riemerge per un attimo dall'abisso di droga e spleen esistenziale in cui è caduto, giusto il tempo per donare al brano una magica parte di pedal steel. Il country di "Dear Doctor" mette sul tavolo idee che verranno poi sviluppate nel successivo Let It Bleed. Il plastico basso di Wyman, le figure pianistiche dell'onnipresente Hopkins e la slide di Richards raggiungono la coesione perfetta nelle visioni allucinate di "Jigsaw Puzzle", l'altro capolavoro del disco.
La seconda facciata si apre con il roccioso inno di battaglia "Street Fighting Man", forte di un riff scolpito nel granito e della batteria "militare" di Watts; il testo, rappresenta l'anatema politico più forte mai scritto dalla premiata ditta Jagger/Richards (il brano contiene l'ultimo contributo portato da Brian Jones, sua la parte al sitar, alla parabola dei Rolling Stones). Il blues stradaiolo e pervertito di "Stary Cat Blues" consacra Jagger & soci al rango di nemici pubblici n. 1. L'elegia bucolica di "Factory Girl" e il gospel corale "Salt Of The Earth" chiudono degnamente un lavoro irripetibile, e che ancora oggi manda a cuccia tutti i presunti "ribelli" del rock odierno.

Nel frattempo, gli Stones scaricano Oldham e si affidano a Allen Klein, registrando un tv-show (con Who, John Lennon & Yoko Ono, Jethro Tull) che resta inedito fino al 1996 ("The Rolling Stones Rock & Roll Circus").



L'annus horribilis

Ma la storia della band più oltraggiosa d'Inghilterra volge presto in tragedia.
Brian Jones, ormai abbandonato al suo destino di autodistruzione e sostituito con Mick Taylor, viene trovato morto nella sua piscina la notte del 3 luglio 1969. Il coroner diagnostica la morte per annegamento e trova nel corpo di Jones ingenti quantità di alcol e droga. Ma non mancheranno, negli anni, i sospetti su un suicidio o addirittura un omicidio. Sospetti che coinvolgeranno perfino lo stesso entourage degli Stones.
Nico, con cui Jones ebbe un flirt, scriverà per lui la poesia "Janitor of Lunacy", Jim Morrison "Ode to L.A. while thinking of Brian Jones, Deceased" e Pete Townshend "A Normal Day For Brian, a Man Who Died Every Day". Ma né Keith Richards né Mick Jagger si presenteranno al suo funerale.
La tragedia di Jones dà il la a una triste stagione di lutti nel rock: nel giro di un anno, moriranno altre tre stelle di prima grandezza: Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. L’utopia hippie, l’epopea della libertà e dell’amore, è al tramonto, simboleggiata dalla fuga impossibile del film "Easy Rider" (1969). Woodstock è l’ultima illusione. Ma sempre nel '69 la setta inebetita del santone (e cantautore fallito) Charles Manson insanguina Bel Air, massacrando sette persone, tra cui l'attrice Sharon Tate (moglie di Roman Polanski) e gettando un'ombra maledetta sull'universo hippie californiano.

E un'aura di morte aleggia anche sugli Stones. Nel dicembre dello stesso anno, durante l'esecuzione di "Sympathy For The Devil" al Festival di Altamont (cui partecipano anche Grateful Dead, Santana e Crosby, Stills, Nash & Young), il violento servizio d'ordine degli Hell's Angels, voluto dagli Stones, provoca disordini, che culminano con l'uccisione di un giovane spettatore, Meredith Hunter.
Infine, Jagger lascia Marianne Faithfull, devastata dalla droga e più volte sull'orlo del suicidio, e sposa Bianca Peres Morena de Macias, una giovane aristocratica nicaraguense.

Ma gli ex loschi figuri della suburbia londinese sanno ancora graffiare. Ne è la riprova l’accoppiata "Honky Tonk Women"-"You Can't Always Get What You Want", ricco antipasto dell'album Let It Bleed, che chiude in gloria l'annus horribilis dei Rolling Stones.
L'inizio è subito al fulmicotone: "Gimme Shelter", puro rock'n'roll chitarristico, che vede Jagger aiutato in controcanto dalla voce femminile di Merry Clayton in un contrasto che riesce a esemplificare quel connubio perverso maschile-femminile che è sempre esistito nel sound delle Pietre Rotolanti (sarà ripresa persino in chiave dark, dai Sisters of Mercy). Nella successiva "Love In Vain", cover di Johnson, riaffiora l'anima blues dei nostri, alle prese con slide e mandolini (con Ry Cooder in grande spolvero) in un clima di caliente malinconia. Il country fa la sua apparizione in "Honky Tonk", versione alternativa di "Honk Tonk Women", e lo fa attraverso violini da sagra paesana e un suono d'insieme molto agreste, con Mick Taylor alla slide.
Il potente basso di Wyman ci introduce in "Live With Me", una delle celebri atmosfere torride degli Stones, retta da una batteria incisiva e da una tagliente ritmica chitarristica. La title track è un'altra gemma: un piano honky-tonk (Stewart) pilota la melodia verso latitudini country-blues. L'inquietudine si fa sovrana in "Midnight Rambler", con atmosfere cupe, fatte di suoni armonici ripetitivi e sinistri rintocchi psichedelici: uno schizzo urbano allucinato, in cui Jagger sfodera mefistofelici vocalizzi gutturali. E' invece Richards a calarsi nei suoni più agresti di "You Got The Silver", con una interpretazione coinvolgente, prima di rivestire i panni della spalla, assecondando l'uomo-scimmia Jagger nell’invettiva anti-perbenista di "Monkey Man".
Il sinfonismo degli Stones raggiunge uno dei suoi vertici nei 7'28'' di "You Can't Always Get What You Want": un enfatico coro gospel dà il benvenuto, si alternano spruzzatine organistiche molto pertinenti, ricami chitarristici e una coralità di musica e voci che cresce sempre più, fino a raggiungere dimensioni mistiche. E' la superlativa conclusione di un altro disco cruciale per la carriera dei Rolling Stones.

I jeans più famosi del rock

Lo stato di grazia è ribadito due anni dopo da Sticky Fingers (1971), che diverrà anche il loro lavoro più celebrato dalla critica, conquistando un posto fisso in quasi tutte le classifiche dei 100 dischi del secolo. Ebbene sì, è l'album con in copertina i jeans sdruciti (ed evidentemente ben guarniti) e la cerniera vera e regolabile (almeno nelle prime edizioni su vinile), il tutto firmato Andy Warhol. La prima oltraggiosa fase, quella più cruda ed efferata, ha però già ceduto il passo a una progettualità sonora netta, forse meno ricca e visionaria (non si improvvisa né si rimpiazza un Brian Jones da un giorno all'altro), ma non per questo priva di ricercatezze, come garantiva la produzione dell'ormai fido Jimmy Miller (artefice nello stesso periodo anche del caleidoscopio musicale dei Traffic).
L'inizio è affidato a "Brown Sugar", micidiale ordigno stritolaclassifiche in cui trovano cittadinanza l'inimitabile riff di Richards, l'animalesca vocalità di Jagger, il battito asciutto di Watts, la chitarra sorniona di Taylor, una profusione incalzante di piano (Stewart) e di sax (Bobby Keyes), infine la puntualità inesorabile del basso di Wyman. Perizia ineguagliabile nell'esporre i conati più aspri e la più languida delle dolcezze, come dimostra la stratosferica "Sway", ballata in bilico tra calor bianco e malinconia, tensione palpabilissima in mezzo a chitarre strazianti, il piano dolceamaro del buon Nicky Hopkins, la teoria discreta degli archi (Paul Buckmaster) e un drumming da accademia delle viscere.
Con "Wild Horses" l'aria si fa più rarefatta, il paesaggio è quello campestre e nebbioso di un qualche pomeriggio in terra d'Albione, contorno ottimale per lo straordinario substrato acoustic-folk di questa ballatona melodica, languidamente interpretata da Jagger. Meno celebre, ma sconvolgente, è la successiva "Can't You Hear Me Knocking", rhythm n' blues dalle torride venature funky-soul (basso e batteria nel cuore della mischia, chitarre insidiose e la voce che insegue torridi punti di rottura), con in più l'acidità verticale dell'organo (Billy Preston), le palpitazioni orizzontali delle congas (Rocky Duon) e uno splendido lavoro di Keyes al sax. Tiriamo il fiato con una cover essenziale e roots di "You Gotta Move", in cui le voci ebbre di Jagger e Richard sono il contraltare buffo di un monumentale Taylor alla slide. Ma c'è poco da star tranquilli, perché "Bitch" è dietro l'angolo, rock posseduto da spiritelli incontenibili, come il soul che scroscia dagli ottoni di Keyes e Jim Price, come il blues che sfregola nella chitarra di Taylor, come il funky scoppiettante della ritmica, treno a precipizio su binari indistruttibili. Binari che ci portano ad attraversare l'agra mestizia soul di "I Got The Blues".
C'è la penna della musa-amante Marianne Faithfull nel testo della celebre "Sister Morphine" (dramma tossico narrato con la pietosa crudeltà di un Lou Reed), folk palpitante e nervoso a cui Jagger dona voce sangue e vocalizzi accorati, orlato da sordi pestaggi di piano (Jack Nitzsche) e dalla slide febbrile di Ry Cooder. "Dead Flowers" è invece un grazioso quadretto folk-blues intarsiato da due chitarre in vena di malie, mentre la conclusiva "Moonlight Mile" imbastisce una ballata ebbra, dove una sezione d'archi in vena d'esotismi può copulare con la più sanguigna delle chitarre ritmiche.

Sticky Fingers schizza al primo posto delle classifiche e inaugura la nuova etichetta del gruppo (Rolling Stones Records), griffata dal celebre logo con linguaccia "Tongue and Lip", per la quale esce anche "Brian Jones Presents The Pipers Of Pan At Joujouka" (1971), un album di musica etnica registrato dall'ex-compagno poco prima della scomparsa, durante un viaggio in Marocco.

Turn to Stone(s)

Il suono del gruppo perde però ogni accento esotico e, inaspettatamente, torna alle origini, in un doppio, granitico album, che resterà anche il loro ultimo capolavoro.
Gli Stones di Exile On Main Street (1972) hanno rotto la barriera della bella forma e puntano dritto alle viscere del rock, nella sua forma più grezza e brutale. A rimetterci è soprattutto l’orecchiabilità, tipica dei loro riff (lo stesso Jagger, all’indomani della sua uscita, definirà il suono troppo grezzo e mal prodotto). Richards, invece, ci mette tutta la sua passione per la tradizione: lavora anima e corpo al disco e lo registra in buona parte nella sua villa nel sud della Francia, pescando anche alcuni outtake dai lavori precedenti.
Exile On Main Street è la summa del Richard-pensiero. Nelle sue diciotto tracce, c’è tutto quello che lo ossessionava: il boogie blues, il gospel, la tradizione popolare e il folk, il rock'n'roll, il country, l'honky-tonk e certi ritmi ancestrali da riti voodoo. L’iniziale "Rock Off" si muove agilissima tra chitarre ritmiche, il piano di Stewart e gli ottimi interventi ai fiati di Price. Ma sono i boogie a far da padrone: c’è quello indurito e di facile presa di "Rip This Joint" (con un grande solo di sax di Keyes), quello in salsa honky-tonk di "Casino Boogie", cesellato con la slide e il sax, quello più blues-gospel di "Tumbling Dice", con la voce di Jagger affogata tra gli strumenti, e quello classicamente rock di "All Down The Line".
Altrove, regna la tradizione, come nell’honky-tonk di "Sweet Virginia", splendidamente condito di armonica, piano, sax e cori gospel, nel country di "Torn and Frayed", fraseggiato da piano e Hammond, e nel bozzetto acustico di "Sweet Black Angel", per chitarra, percussioni e armonica. Ed è puro gospel-sound quello di "Loving Cup", con piano e fiati a primeggiare.
"Hip Shake" è costruito su un riff che assomiglia molto a ''On The Road Again'' dei Canned Heat nel giro di note suonate dal basso di Wyman, mentre "Stop Breaking Down" è un blues di Robert Johnson che gli Stones esaltano con la ottima solista di Richards e una batteria tribale, che sembra scandire un rito pagano. Atmosfere da voodoo che pervadono anche "I Just Want To See Her Face", tra vocalizzi luciferini ed effetti stranianti di matrice quasi psych. La semplicità fa la forza di brani come la grezza "Ventilator Blues", con un sax che graffia e un piano in perfetto stile honky-tonk, o "Shine A Light": piano & voce, e un Hammond pulito a far da tappeto a un motivo pop-rock, con coretti gospel che lavorano ai fianchi. "Let it Loose" presenta memorabili fraseggi di piano e chitarra elettrica, prima di farsi trascinare con le trombe in pieno clima da gospel. Potente, vibrante, con la voce maniacale di Jagger, "Soul Survivor" va a chiudere il disco.

Con Exile On Main Street si conclude il ciclo d’oro degli Stones. Dopo il big-bang di questo doppio monolite, infatti, qualcosa si spezza per sempre. Jagger è occupato soprattutto a consolidare la sua fama nel jet-set, tra party sexy e innumerevoli flirt, mentre Richards sprofonda nel baratro delle droghe. Così Goat's Head Up (1973) appare sottotono, anche se conquista il n.1 delle chart Usa con la struggente ballata "Angie" (secondo alcuni dedicata alla moglie di David Bowie), il loro "lento" per antonomasia. E' un disco di transizione, pervaso da un'atmosfera svogliata e decadente, tra archi, wah-wah di chitarra ed espliciti riferimenti sessuali (tra cui la laida "Star Star", ripescaggio dal songbook di Chuck Berry, dall'originario ed emblematico titolo di "Starf*cker").

Il successivo It's Only Rock And Roll (1974) presenta un sound ancor più levigato e di maniera (come ammettono nella title track, "è solo rock'n'roll, ma ci piace"), che scivola perfino nel reggae più insulso ("Luxury"), ma riesce a riscattarsi con alcune scosse telluriche degne degli anni d'oro, tra cui la stupenda cavalcata elettrica di "Time Waits For No One", trascinata dalla chitarra ipnotica di Taylor e da un Jagger in vena dolceamara, e la sfrontata cover di "Ain't Too Proud To Beg" dei Temptations.

Nel dicembre 1974, Mick Taylor, da sempre allergico agli stravizi dei compagni, abbandona il gruppo e nell'American Tour del 1975 viene rimpiazzato dal chitarrista Ron Wood (1947, Hillingdon, Gran Bretagna), già al fianco di Rod Stewart nel Jeff Beck Group e nei Faces.

Il nuovo album Black And Blue (1976) scala le classifiche grazie al delicato singolo "Fool To Cry" e all’altra intensa ballata di "Memory Hotel", ma conferma una sostanziale povertà d’idee. Eccetto un paio di episodi ("Hand of Fate", "Crazy Mama"), il rock’n’roll brado degli esordi cede il passo a sincopi funk-disco (l’esuberante "Hot Stuff") e a eccitazioni latin-reggae ("Hey Negrita"). Stagionati erotomani e inguaribili narcisisti, gli Stones ora pomiciano con le discoteche, superando con l’ironia l’altissimo rischio-patetismo.

Rotolando in discoteca

In questo periodo si aggrava la dipendenza dalle droghe di Richards, arrestato in Canada per possesso di eroina insieme alla compagna Anita Pallenberg, altra musa degli Stones e già storica fidanzata di Brian Jones. Nonostante ciò, Some Girls (1978) mostra un gruppo in buona salute, con un pugno di canzoni blueseggianti (la cover di "Just My Imagination" dei Temptation, la ballata di "Beast Of Burden", l’hard-rock decadente di "Some Girls"), la gustosa parodia country di "Far Away Eyes" e un singolo sapientemente cazzaro come "Miss You", che li riporta in testa alle classifiche.

Al cospetto di una nuova ondata di giovani rocker pronta a fare pezzi l’ordine costituito, dinosauri inclusi, al grido di "Anarchy in the Uk", Jagger e compagni riescono ancora a tenere botta, facendo la loro porca figura di eterni bad-boys.
Finti come pochi, paraculi quanto basta per continuare a vendere pacchi di dischi, questi Stones da dancefloor riescono quantomeno ad attirare le simpatie di quanti ne avevano sempre avversato lo stile ruvido e scontroso.

Il ritrovato successo commerciale è ribadito da Emotional Rescue (1980), che sbraca ulteriormente in direzione dance. Il falsetto lascivo della title track, scandita da battiti disco-blues, li porterà, tanto per cambiare, in vetta alle chart. Ma a regalare i momenti più palpitanti è soprattutto il rock primordiale di "She’s So Cold" e "Summer Romance".

Il momento di grazia (almeno dal punto di vista commerciale) è ribadito da Tattoo You (1981), che sfoggia due ospiti illustri come Sonny Rollins e Pete Townshend (Who). La trascinante "Start Me Up", marchiata da un altro memorabile riff di Richards e dalla ritmica implacabile di Watts, è il nuovo inno (e forse anche l’ultimo), "Waiting On A Friend", griffata dal solo di sax di Rollins, e la dolce "Worried About You" consolidano la tradizione delle ballate. Degni di nota anche il doo-wop frenetico di "Hang Fire", la jam reggae di "Slave" e l’hard-blues di "Black Limousine". Nel complesso, tuttavia, il disco è una pallida copia dei classici del passato.

Segue un tour mondiale che si protrae fino al 1982, dal quale vengono tratti un album dal vivo (Still Life, giugno 1982) e un film-concerto ("Let's Spend The Night Together", diretto da Hal Ashby). Sono show turbolenti e instabili, a causa dell'alcolismo che affligge soprattutto Richards e Wood: quest'ultimo addirittura si addormenterà sul palco durante un concerto a Londra!

Jagger, di nuovo al centro delle cronache rosa per il matrimonio con la modella Jerry Hall (ex di Bryan Ferry), perpetua il ruolo dell'animale da palcoscenico con i suoi atteggiamenti plateali ma sempre più caricaturali. L'11 luglio 1982 gli Stones tengono a Torino il primo concerto in Italia dal 1967. E’ la sera della finale dei Mondiali di Spagna: per accattivarsi il pubblico, Jagger indossa una maglia azzurra con il numero 20, quello di Paolo Rossi, e profetizza il 3-1 dell'Italia sulla Germania. Poche ore dopo, l'Italia sarà campione del mondo...

Il pasticciato Undercover (1983) è il segno più evidente del declino della band, ormai a corto di idee e pronta ad adeguarsi alle nuove mode musicali (come con l'opaco funk di "Undercover Of The Night"). Sonorità hard-rock, new wave, pop, reggae, dub e soul vengono trapiantate negli spartiti della band determinando frequenti crisi di rigetto. L’ode ninfomane di "She Was Hot" tiene per un attimo alta la suspence, ma già l’immaginario stantio di "Too Much Blood" ha il sapore della minestra riscaldata e "Wanna Hold You" è solo il disperato colpo di coda di un Richards sempre più insofferente.

La crisi, infatti, fa venire definitivamente alla luce i dissidi tra Richards e Jagger: il primo deciso a mantenere l’impronta rock tradizionalista, il secondo più propenso a cavalcare le tendenze musicali del momento. Jagger debutta come solista con She's The Boss (1985), prodotto da Bill Laswell e Nile Rodgers, virando in seguito verso un pop-rock decisamente banale, come dimostrano anche i duetti con David Bowie ("Dancing In The Street") e Tina Turner per la kermesse umanitaria di Live Aid (luglio 1985). Significativo che nello stesso concerto Wood e Richards scelgano di accompagnare, con le chitarre acustiche, Bob Dylan.

Incuranti della crisi e uniti da un destino che li vuole immortali, i Rolling Stones - nel frattempo divenuti la prima band a entrare nella Hall of Fame - vanno avanti con Dirty Work (1986), prodotto da Steve Lillywhite e dedicato all'amico Ian Stewart, da poco scomparso. "One Hit (To the Body)" prova (invano) a ridestare i fan dal torpore, ma è una cover del misconosciuto duo Bob & Earl a offrire i momenti più intensi: "Harlem Shuffle", conturbante esercizio di oscurità soul, fa gridare per un attimo al miracolo. Peccato, però, che assalti assai più telefonati, come "Winning Ugly" e "Had It With You", riportino presto l’ascoltatore alla realtà.

Nei tre anni successivi si accentua il solco tra i quattro membri della band: Watts suona jazz con la Charlie Watts Orchestra, Wood accompagna in tour Bo Diddley, Richards collabora con Aretha Franklin ("Jumpin' Jack Flash") e all'allestimento di un film-concerto in onore di Chuck Berry ("Hail! Hail! Rock'n'Roll", 1987). Quando Jagger pubblica il suo secondo, deludente album Primitive Cool (1987), anche Keith Richards, nel frattempo disintossicato e rinsavito, incide il suo primo album da solista: Talk Is Cheap (1988).

Gli highlander

Ma la longevità degli Stones è a prova di bomba. Esce così Steel Wheels (1989), con il singolo "Rock And A Hard Place", la cantilena di "Sad Sad Sad", il rock’n’roll di "Mixed Emotions" e poco altro. Il sound ha perso del tutto l’espressività viscerale di un tempo, anche le loro jam infuocate si sono progressivamente stemperate: tutto risulta tremendamente studiato e poco convinto.

Gli Stones, però, restano una macchina da concerti senza eguali. E così dopo il nuovo tour, arriva l'album live Flashpoint (1991), che conferma quantomeno lo stato di salute della band dal vivo, offrendo anche un paio d'inediti in studio: "Highwire" e "Sex Drive".

Subito dopo il tour, Bill Wyman lascia la band, mentre Richards pubblica Main Offender (1992) e Jagger Wandering Spirit (1993).

Voodoo Lounge (1994) vede il bassista Daryl Jones (già con Miles Davis e Sting) al posto di Wyman. Gli Stones, se non altro, rinunciano agli ammiccamenti maldestri alle nuove tendenze, concentrandosi su un rock duro e compatto, grazie anche al contributo in cabina di regia del nuovo produttore, Don Was. "Love Is Strong", "You Got Me Rockin'" e "Sparks Will Fly" si mantengono nei binari di un canonico rock chitarristico di marca 70’s, ma forse l’apice del disco è da rintracciarsi nelle atmosfere malinconiche di "Out Of Tears" e nei profumi esotici di "Moon is Up".

Un anno dopo esce Stripped, un album registrato in parte dal vivo e in parte durante le pause dell'ultimo tour. Un disco ancora una volta mediocre, salvo la riuscita cover della dylaniana "Like A Rolling Stone", che in questa versione assume un nuovo, ironico significato.

Neanche Bridges To Babylon (1997) riesce invertire il declino della rock band più duratura di sempre. Jagger tenta di dare una rinfrescata al sound del gruppo chiamando a raccolta collaboratori come i Dust Brothers (Beck, Beastie Boys) e Danny Saber (Black Grape). Ma, a parte qualche scarica d’adrenalina ("Gunface", "Flip The Switch", "Low Down"), il copione riserva poche sorprese, inciampando nella maldestra ballata di "Anybody Seen My Baby?" e nello stanco numero reggae di "You Don't Have To Mean It", firmato da un Richards ormai controfigura di sé stesso.

Dopo un lungo periodo di pausa, colmato solo da sporadici show, con Jagger intento a pubblicare il nuovo disco solista, Goddess In The Doorway (2001), il patetico tentativo di maquillage di A Bigger Bang (2005) si rivelerà ancor più disastroso. Tranne, ovviamente, per il conto in banca dei Nostri, catapultati per incanto in vetta alle classifiche, grazie a una gigantesca operazione di marketing. "Rough Justice", il pezzo che inaugura il festival delle banalità, è un classic rock senza alcun mordente. Il primo singolo estratto, "Streets Of Love" è per certi versi disarmante, tanto è convenzionale.
Il disco suona esangue e privo di effettivi stimoli. Tesi avvalorata dalle seguenti "Let Me Down Slow" e "It Won't Take Long", dove il senso di déjà vu diventa insopportabile. Il funky venato di black and blues di "Rain Fall Down" si salva, almeno nei primi trenta secondi, per poi sprofondare nella banalità. L'onda lunga del riempitivo, che coinvolge il blues ubriaco di "Back Of My Hand", le chitarre e i ritornelli alla Jet di "She Saw Me Coming" e i sentimentalismi preconfezionati di "Biggest Mistake", tocca l'apice con la stanca "This Place Is Empty".
Il resto non è meno scontato, con l'armonica della politicizzante "Sweet Neo Con", il retrogusto anni 80 di "Look What the Cat Dragged In" e lo swing spericolato (sic!) di "Driving Too Fast". In chiusura, "Infamy", cantata da Keith Richards, suona un po' come una sorta di liberazione.

La successiva tournée, tuttavia, è l’ennesimo trionfo, anche per le loro già floride finanze (con 138,5 milioni di dollari incassati, sono i musicisti più ricchi del 2006), fino al singolare incidente occorso a Keith Richards: durante una vacanza alle isole Fiji, cade da una palma, procurandosi una commozione cerebrale. Operato al cervello all'ospedale di Auckland, in Nuova Zelanda, ne uscirà con la consueta ironia: "Hanno rimesso a posto la mia testa".
Il 23 marzo 2007 Mick Jagger annuncia il prosieguo del "Bigger Bang Tour".

Se la longevità forzata degli ultimi vent'anni ne ha fatto delle stagionate caricature di rockstar, la selvaggia creatività dei loro anni d'oro ha marchiato a fuoco la storia del rock. I Rolling Stones sono diventati il prototipo della rock band, costruita attorno a un frontman insolente e carismatico, a un chitarrista-funambolo e a una sezione ritmica lussureggiante. Sono stati loro a tracciare la via maestra attraverso la quale la musica di Chuck Berry ha varcato le soglie del Duemila. Sono il gruppo che dal vivo ha avuto il maggior numero di spettatori della storia. Hanno venduto milioni di dischi. In fondo, non è importante stabilire se siano davvero la più grande band del rock. I Rolling Stones, semplicemente, sono il rock.

Contributi di Cristian Degano ("Aftermath"), Andrea Fedeli ("Beggars Banquet"), Stefano Pretelli ("Let It Bleed"), Nello Giovane ("Sticky Fingers"), Graziano Edi Corazza ("Exile On Main Street"), Emilio Saturnini ("A Bigger Bang")


http://www.ondarock.it/rockedintorni/rollingstones.htm
13/07/2007 15:49
 
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Discografia
ROLLING STONES

The Rolling Stones (ABKCO, 1964)
12 x 5 (ABKCO, 1964)
The Rolling Stones N. 2 (Decca, 1965)
The Rolling Stones Now (Decca, 1965)
Out Of Our Heads (ABKCO, 1965)
December's Children (And Everybody's) (ABKCO, 1965)
Aftermath (ABKCO, 1966)
Got Live If You Want It (live, ABKCO, 1966)
Between The Buttons (ABKCO, 1967)
Flowers (ABKCO, 1967)
Their Satanic Majesties Request (ABKCO, 1967)
Beggar's Banquet (ABKCO, 1968)
Let It Bleed (ABKCO, 1969)
Get Yer Ya-Ya's Out! (live, ABKCO, 1970)
Sticky Fingers (Virgin, 1971)
Exile On Main Street (Rolling Stones, 1972)
Jamming With Edward! (Rolling Stones, 1972)
Goat's Head Soup (Virgin, 1973)
It's Only Rock'n'Roll (Virgin, 1974)
Black And Blue (Virgin, 1976)
Love You Live (live, Virgin, 1977)
Some Girls (Virgin, 1978)
Emotional Rescue (Virgin, 1980)
Tattoo You (Virgin, 1981)
Still Life (live, Virgin, 1982)
Undercover (Virgin, 1983)
Dirty Work (Virgin, 1986)
Hot Rocks 1964-1971 (antologia, ABKCO, 1986)
Steel Wheels (Virgin, 1989)
Flashpoint (live, Virgin, 1991)
Jump Back (antologia, Virgin, 1993)
Voodoo Lounge (Virgin, 1994)
Stripped (live, Virgin, 1996)
Rock'n'Roll Circus (ABKCO, 1996)
Bridges To Babylon (Virgin, 1997)
No Security (live, Virgin, 1998)
Live Licks (live, Virgin, 2004)
A Bigger Bang (Virgin, 2005)

MICK JAGGER

She's The Boss (Atlantic, 1985)
Primitive Cool (Atlantic, 1987)
Wandering Spirit (Atlantic, 1993)
Goddess In The Doorway (Virgin, 2001)

KEITH RICHARDS

Talk It Cheap (Virgin, 1998)
Live At The Hollywood Palladium Center (live, Virgin, 1991)
Main Offender (Virgin, 1992)
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