Cinque anni dopo: nessun vincitore, tutti prigionieri
La ferita dell'Occidente: fasci di luce al posto delle Torri Gemelle a New York
Ogni guerra ha le sue cifre e quella aperta dalla strage dell'11 settembre 2001 non fa eccezione. Ai 2973 morti fra le Torri Gemelle, i cieli della Pennsylvania e il Pentagono nella giornata in cui cronaca e storia si fusero a velocità impressionante, l'impegno nella guerra preventiva di Bush e i suoi alleati ha aggiunto oltre 2600 soldati americani e 230 militari di altra nazionalità (tra cui 26 italiani) caduti in azione. Più di 48.000 civili hanno perso la vita nelle guerre post-attentato tuttora in corso in Afghanistan e Iraq. Senza dimenticare le quasi 800 vittime di attentati terroristici realizzati negli ultimi quattro anni.
Gli Usa e i loro alleati sono però riusciti a rovesciare i regimi dei talebani e del dittatore iracheno Saddam Hussein. Nel giorno della commemorazione e mentre un nuovo video mostra i preparativi dell'attacco, il dubbio rimane: chi vince e chi perde?
Rispondere ora è impossibile, entrambi i contendenti (gli Usa e la loro logica democratica fondata sul capitalismo multinazionale da una parte, la galassia di forze musulmane jihadiste contrarie ai valori occidentali e all'esistenza di Israele dall'altra) all'indomani della strage dissero subito che sarebbe stata una guerra di lunga durata. Ma è una guerra che da quell'11 settembre tiene prigioniero ciascuno di noi.
Il crollo delle Torri Gemelle è stato il crollo della fiducia nel futuro, nei propri governanti (Bush su tutti, capace solo di sprecare la sua vantaggiosa influenza su un mondo che in un primo momento si era sentito chiamato alla solidarietà e alla coesione contro il nemico), nella capacità dell'Occidente di proteggersi dagli attacchi dell'odio e dell'intolleranza, così come di esportare l'idea di felicità legata alla tecnologia e al mercato. I principali network giornalistici degli Usa hanno chiesto di recente agli americani se temono di essere di nuovo vittime di attentati a casa propria. Uno su tre risponde di sì. E non è tutto.
Cresce anche il fronte di quelli che non credono alle versioni dei fatti fornite dall'amministrazione Bush sull'impegno militare in Iraq e Afghanistan. Nell'ex Paese di Saddam, nonostante il dispiego di ormai oltre 130 mila soldati americani, tira aria di guerra civile tra sciiti e sunniti, nel covo di Bin Laden (o presunto tale) risorge la guerriglia talebana, ne sanno qualcosa i militari britannici, invischiati in durissimi scontri. Aumentano anche la dietrologia e la paranoia del complotto sulla dinamica degli attentati (il crollo per molti troppo preciso delle torri, i dubbi sugli aerei precipitati in Pennsylvania e contro il Pentagono). E appare sempre più evidente l'importanza del peso mediatico di questa guerra, con Osama e i suoi luogotenenti che sfidano in tv Bush e sodali con pari padronanza delle tecniche di comunicazione e persuasione.
Fin qui l'America, ma il resto dell'Occidente? Almeno di recente segna un punto a proprio favore. Sulla sfida nuclerare dell'Iran di Ahmadinejad, così come sull'invio della forza di pace in Libano, l'Onu si è ricompattata ed è riuscita a impedire a Stati Uniti (peraltro sfibrati economicamente dall'impegno in Iraq) e a Israele di fare ancora un volta di testa propria. Francia, Germania, Usa e Gran Bretagna ragionano secondo una logica comune dopo lo strappo sulla seconda Guerra del Golfo. Un segnale positivo da cui ripartire. Se si vuole fermare la "lunga guerra", e non perderla, serve un' Europa coesa, degno contraltare ideologico e strategico dell' America rabbiosa, impaurita e sotto attacco dell'Islam più intollerante. Quello che minaccia tanto gli occidentali che i Paesi musulmani moderati.
Cristiano Sanna per Tiscali notizie
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