Non è più come nel 2001, il re del mondo, il condottiero unico della traversata del deserto. È in difficoltà. Come accade ovunque ai leader di governo europei.
Berlusconi è e resta, nonostante tutto, una strutturale e felice provocazione contro l'andazzo inerte, riformista-conservatore, europeista senz'anima, della quasi totalità dei suoi nemici e perfino ormai, bisogna dirlo, dei suoi alleati. Nel momento di massima crisi della sua capacità di comando di un paese e sulla sua stessa coalizione di governo, quando la danza intorno al «leader del destino» prende le solite movenze del banale tradimento all'italiana, sarebbe facile limitarsi a dire: tifo per lui, punto e basta, finché altri non abbia dimostrato di avere almeno un progettino, un'ideuzza, un soffio, un tono all'altezza della situazione storica in cui l'Italia anomala, figlia dell'assalto togato ai presidi e alle istituzioni, vive da dieci anni. Tanto più facile in quanto Silvio Berlusconi è anche il maggior azionista del gruppo che edita questo giornale. Ma è utile? No. E allora vediamo di diagnosticare la malattia da cui è affetto questo nostro padrone che ancora una volta, come si dice bonariamente a Napoli, è «uscito pazzo».
Ormai è definitivamente chiaro che Berlusconi detesta la politica (e ne è detestato). Conosce l'arte del contrasto commerciale, perfino del primitivo baratto, ma non quella del compromesso di potere. Dopo dieci anni di apnea, sommersi e salvati nell'avventura personale del berlusconismo, i postfascisti e i postdemocristiani gli hanno detto (chiaramente o no, non importa) che avevano bisogno di respirare. Per un anno e mezzo, Berlusconi ha continuato a tenerli con la testa sott'acqua. La famosa «verifica» di governo non ha prodotto quel nuovo equilibrio che era nell'interesse del premier e della sua possibilità di durare, di governare, di fare. Il compromesso mancato, della cui definizione Berlusconi doveva per statuto politico essere il titolare e l'architetto, ha inasprito le cose fino allo showdown su Giulio Tremonti. Con le spalle al muro, il presidente del Consiglio ha sacrificato il suo ministro strategico, senza mai prima avergli imposto di partecipare in dovuta forma alla ricerca e alla stipula di un accordo, e così si è ferito da solo.
Per sanare la ferita ha poi ideato una soluzione beffarda, che non regge. Prima ha lanciato la candidatura di Mario Monti all'Economia: era molto più di un compromesso, era una promessa di normalizzazione rischiosa, l'inizio virtuale di una complicata partita a scacchi fuori del perimetro storico del berlusconismo. Ma nel giro di 24 brevi ore Berlusconi ha reinventato il se stesso di sempre, e assumendo un interim politico della gestione dell'economia su di sé ha di nuovo provato a dimostrare, in spregio della famosa collegialità invocata dai suoi alleati di An e irridendo la richiesta di normalità politica dei postdemocristiani, che l'unico motore possibile della coalizione di governo è la sua «anomalia personale» (oltretutto nel campo minato del conflitto di interessi, visto che il titolare del Tesoro è il legale e diretto padrone della Rai).
Nella beffa dell'interim c'è tutto il Berlusconi impolitico e l'antipolitico, c'è la sua indisponibilità assoluta a leggere i cambiamenti del decennio, e nel decennio dei tre anni del suo governo. Non è più come nel 2001, all'epoca della fucilazione di Renato Ruggiero e del primo interim, il re del mondo, il condottiero unico dell'attraversata nel deserto, l'uomo che legittima le ambizioni istituzionali di Pier Ferdinando Casini e l'accettabilità politica dei postfascisti nel governo dell'Italia. È altra cosa, nello specchio di questi tre anni, il Cavaliere. È un premier in difficoltà, come accade ovunque e per ragioni diverse ai leader di governo europei di ogni colore. È un leader che ha perso il crisma guerriero dell'assedio giudiziario, a cui è felicemente sfuggito, è un colossale imprenditore che ha trasformato la minaccia di esproprio delle sue aziende in un loro minaccioso distacco, in una loro formidabile capacità di sviluppo nel mercato regolamentato dalla legge Gasparri.
Prendere atto dei cambiamenti di pelle della politica, il cui epitelio è quello del serpente. Prendere atto e interpretarli, anticiparli, correggerli con sapienza e adeguandosi ai rapporti di forza pro tempore. Con tutto il carisma possibile, se un leader di coalizione non fa questo, non fa semplicemente il suo mestiere. Eppure Berlusconi, che conosce bene il suo Paese, che sa quanto sia poco presidenzialista e plebiscitario, che ha già sperimentato sulla sua pelle nel '94 quanto sia diviso e infido il nostro sistema di potere, non riesce nemmeno a percepire l'entità del pericolo e la sua qualità: la sua sordità è un rifiuto di passione e sentimento, di ego e di malinteso interesse di giornata, non una decisione razionale.
Certo che Berlusconi vuole ridurre le tasse come ha promesso, anche a nome dei suoi alleati, certo che la sua ipotesi è quella giusta, rivoluzionaria per un paese seduto tristemente nell'eterno ritorno della concertazione, ma la rivoluzione è, se è, ragione e decisione, non il postmoderno disordine creativo dell'immagine e della beffa continua.
di Giuliano Ferrara - Panorama.it
12/7/2004