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Per Gimbo una lettera di Cugia
LETTERA DALLA SARDEGNA

Dopo aver fumato anche la sabbia, in Marocco, approfittando della disoccupazione forzata dai canali della radio pubblica, sono tornato alle origini, nel mio "confino" sardo, a fare il vagabondo volontario per quella "Cosa" di centrosinistra che sta nascendo in quest'isola attualmente governata da sventurati.
Quello che m'interessava scoprire era se un personaggio come Renato Soru, che ha internazionalizzato la Sardegna con un clic, sarà l'apripista di una nuova classe politica dell'Ulivo, che politica non è. Tutto, infatti, si può dire di Soru meno che sia un politico, e questa è la sua forza dirompente, che un domani potrebbe rivelarsi il suo limite, perché se vuoi governare la Sardegna è più facile scardinare un meccanismo ormai logoro, e stabilire un patto di fiducia con la gente, ma molto più arduo, credo, sarà ricostruire un linguaggio originale e un rapporto vivificante con le forze politiche e sindacali. La sfida, in fondo, è proprio questa: governare un cambiamento, e non limitarsi a cavalcare una frattura fra i partiti e la gente, insomma, non limitarsi a incarnare l'Uomo del No.
Sarà perché ha studiato dagli Scolopi, sarà perché ha già creato, partendo dal nulla, un piccolo impero tecnologico, credo che l'uomo di Sanluri possa fare questo salto di qualità se, come ha promesso a 46 anni, è disposto a cambiare il proprio carattere prima ancora di rimodellare quello millenario della Sardegna. Per assaggiare uno spicchio della storia di quest'isola, mi fa particolarmente piacere pubblicare sul sito il breve discorso che ho tenuto alla Fiera Campionaria di Cagliari, dove, tre giorni fa, Renato Soru ha aperto la sua campagna elettorale.

Io devo a Berlusconi due cose: di avermi dato la spinta a scrivere romanzi e di avermi fatto tornare, per Soru, nell'isola dei miei padri. Le due cose che Berlusconi mi ha regalato sono due lunghe censure, due periodi di disoccupazione e silenzio.
Dieci anni fa, nel 1994, ero un semplice autore di programmi di satira. La domenica mattina, nello spazio storico del Gran Varietà di Radio 2, scrivevo e conducevo "La domenica delle meraviglie" con un attore sardo che ricordo con immenso affetto: Gianni Agus. Mi ero da poco sposato ed era nato il mio primo figlio. Vivevo in campagna, in Umbria, una casa che poi ho venduto perché avevo cercato di costruire laggiù quella casa, quella terra, che in Sardegna non avevamo più. Poi ho capito che la speranza non basta, la Sardegna non si può sostituire. Adesso non voglio fare Rossella O' Hara in Via col Vento, ma da quando vidi quel film da bambino, la scena di Rossella che prende un pugno di terra e alza il pugno al cielo perché vuole, dalla macerie della propria anima e della sua proprietà, ricostruire la sua casa e il suo futuro, da quando vidi quella scena ho sempre pensato alla mia terra, la Sardegna. Dieci anni fa, dicevo, nel mio varietà facevo satira sulla discesa in campo di Mastrolindo. Così, quando Mastrolindo andò al governo, la Rai mi mise alla porta.
Avevo appena comprato quel pezzo di terra in Umbria e stavamo ristrutturando una casa. Avevo più mutui che capelli. E non potendo fare il mio mestiere, scrivere per la radio o per la TV, mi misi a scrivere un romanzo perché avevo scoperto una storia bellissima e dimenticata, i Vespri Sardi. La storia era questa: Nel 1853 il governo piemontese soppresse l'antico corpo dei cavalleggeri sardi e inviò sull'isola un fiammante e strombazzante reggimento dei bersaglieri. Per questi ragazzi piemontesi e genovesi con le piume al vento fu come un viaggio in Africa. Vi ricordo che all'epoca, Cavour diceva frasi come queste: "Finché i cagliaritani non avranno acqua per lavarsi non imboccheranno mai la strada della civiltà." Sono passati 150 anni, l'acqua non c'è ancora, ma di civiltà ne abbiamo da vendere. Dunque i bersaglieri scendono dal vapore Malfatano, a Porto Torres, con la loro fanfara, e corrono fra due ali di sardi in costume, dai volti di pietra, che non si entusiasmano neanche un po'. Il loro presidio nell'isola è la solita storia di colonizzazione: un po' di razzismo, vessazioni, insomma, sardi italiani di serie B, prima ancora che ci fosse l'Italia unita di serie A.
Il fatto è questo. I sassaresi festeggiano il carnevale al Teatro Verdi. I cartelli alle pareti ammoniscono i militari a togliersi il cappello per ballare con le dame. In città si vocifera di una signora sarda, sposata, che pare abbia una tresca con il maggiore dei bersaglieri. Tutta Sassatri è schierata col cornuto, perché stare con un gallinaccio piemontese pare un'offesa a tutta la città. Il maggiore entra in scena e, tenendosi il cappello piumato piantato in testa, nel bel mezzo della pista da ballo del Verdi, invita a ballare l'amante sassarese, davanti al povero e costernato marito. Dai loggioni partono fischi e proteste: "Giù il cappello, disgraziato!" Come tutta risposta il maggiore dei bersaglieri chiama i suoi alle spade. E, in un loggione, un povero ragazzo che non c'entrava nulla viene infilzato come un galletto. Apriti cielo, Sassari in rivolta, fu un carnevale di sangue. I bersaglieri misero a ferro e fuoco la città per tre giorni, ma…udite udite…al terzo giorno capitolarono. All'alba una lunga fila di bersaglieri s'incamminò verso porto Torres scortata dal popolo in armi. Furono rimparcati a forza sul Malfatano. E il vapore ripartì per Genova con il suo carico piumato.
La cosa, ovviamente, non piacque affatto ai notabili di Torino. Sei mesi dopo una flotta al comando del generale Durando assediò l'isola, che venne commissariata. Tutti i cittadini di Sassari, Oristano, Cagliari dovettero consegnare le armi. E da quel giorno, con le buone o con le cattive, la Sardegna divenne italiana, prima di tutte le altre regioni d'Italia.
Chissà perché queste cose ancora non si raccontano a scuola.

Il mio romanzo "Il Generale e la Luna" è ancora in un cassetto, fermo a pagina 250. Non so perché, non sono mai riuscito a trovare una fine. Forse perché non c'è ancora. Dieci anni dopo, Berlusconi è tornato. Nel frattempo avevo scritto otto libri, e svariati programmi radiotelevisivi. Ma la storia si è ripetuta tale e quale. Censura e silenzio. E per la seconda volta devo dire grazie a questa luna nera. Perché se facessi come miei colleghi che lavorano sotto tutti i padroni e sotto tutti i regimi (basta accendere le tv per vedere le faccie di cui parlo) oggi non sarei qui. Ma mio padre, sardo, mi ha insegnato da bambino che bisogna trasformare la luna nera in un sole. Ora non c'è più ma la sua Sardegna c'è sempre e oggi noi siamo qui per custodirne la storia e il futuro. Mi auguro davvero che questa volta ce la faremo.
Alle mie spalle c'è questo striscione con lo slogan "Da oggi il cuore della Sardegna batte più forte." Io spero che il mio cuore, invece, batta molto ma molto piano e dolcemente, per poter vivere il più a lungo possibile nella Sardegna che rinnoveremo con Renato Soru.

[Modificato da Gimbo15 24/06/2004 19.05]






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si immaginavo, volevo sapere se l'autore è il Cugia che conosco..tutto qua![SM=g27833]


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Sono nato a Roma, il 24 Maggio 1953, ma la mia famiglia è sarda, e i padri dei miei padri provenzali e i loro avi spagnoli, e ho sempre desiderato vivere in una città che non c'è, perchè è Barcellona, con il quartiere Castello di Cagliari, la cattedrale di Alghero, un mercato provenzale e il porto di Lisbona. A scuola sono sempre stato rimandato o bocciato, finchè mio padre non mi ha affidato a Guglielmo Martucci, l'uomo che sapeva tutto, ed era stato, a sua volta, il suo professore di filosofia. Guglielmo era un genio di periferia, con i capelli da Einstein e il corpo deformato del gobbo di Notre Dame, perchè da bambino era caduto da un albero. Abitava in capo al mondo, distanza che veniva coperta da cinque autobus al giorno, andata e ritorno, e mi ha insegnato due cose: la prima, che studiare può essere più strabiliante della donna baffuta del circo; la seconda, che la periferia di una grande città nasconde dei monumenti umani, mentre il centro solo dei monumenti.
Mi sono diplomato privatamente a diciassette anni e sono andato a vivere da solo, in una camera dalle parti di piazza Navona. Per mantenermi ritiravo sacchi di monetine dalle macchinette Faema sparse per gli uffici della città e le rifornivo di zucchero, bicchierini e caffè; facevo l'aio di bambini di famiglie signorili (oggi si direbbe baby-sitter); la notte, per tre anni, sono stato praticante non riconosciuto per quotidiani secondari nelle tipografie a piombo di una volta. Più dei cronisti, i miei maestri sono stati i grandi tipografi che mi hanno insegnato che si può tagliare chiunque, e forse, prima ancora d'imparare a scrivere, ho imparato a tagliarmi.
Molti anni dopo ho appreso che anche questo è un vizio, e conduce alla perfezione lapidaria della pagina bianca. Lo stile, credo, si raggiunge infondendo temperanza fra i due estremi.
Da ragazzo ho letto i romanzi che ho più amato: "Martin Eden" di London, "Le illusioni perdute" di Balzac, "Alla ricerca del tempo perduto" di Proust, "Demian" di Hesse, le "Conversazioni in Sicilia" di Vittorini, "Tonio Kroger" di Mann, "Il Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa, "Lo straniero" di Camus e tutti i romanzi di Dickens pubblicati in Italia. Le "Memorie di Adriano" della Yourcenar, invece, Stendhal, i russi, la narrativa americana (Conrad e Melville) e in particolare quella sudamericana, a partire da "Cent'anni di solitudine", li ho letti dopo. Da ragazzo mi sono abbeverato a tutti i racconti di Poe, di Buzzati, di Calvino, di Cechov. Alle poesie di Rilke, di Borges, di Silvia Plath, di Eluard, di Neruda e di Evtušenko, e soprattutto di Giovanni Pascoli.
L'amore per Pascoli e per la letteratura lo devo a mio padre e alla sua voce che tremava leggendomi "La pecorella smarrita" o "Tra San Mauro e Savignano" e alla sua sfavillante biblioteca.
Sono entrato in analisi freudiana all'età di quattordici anni perchè diventavo rosso quando parlavo con le ragazze. Ho partecipato alla prima terapia di gruppo in Italia, al Policlinico Gemelli, all'età di sedici anni, e una delle partecipanti, nella prima seduta, ha detto "Vorrei fare l'amore con lui." Tutti mi hanno guardato e sono diventato rosso come una lampada di cartapesta cinese, ma sono riuscito a dire "Veramente l'ho pensato anch'io di lei." Con la terapia di gruppo ho imparato a non mettere filtri fra ciò che si pensa e ciò che si dice. Con l'analisi individuale ho imparato a mettere filtri tra ciò che si è e ciò che si sogna di essere. Oggi penso, comunque, che la vita sia la migliore maestra in circolazione e che la psicanalisi abbia un solo, grande difetto: quello di farti ripiegare su te stesso fino a farti ombra e, paradossalmente, a impedirti di crescere.
Sono stato iniziato al Krya Yoga, lo yoga spirituale, dall'allievo di Paramahansa Yogananda, un indiano di più di ottant'anni e dal sorriso senza tempo che sosteneva di essere stato mio figlio in una vita precedente. L'ho molto amato, ma non amavo i suoi discepoli come, generalmente, non amo le "scuole", le sette, i club e le lobby, comprese le spirituali.
Sono diventato giornalista professionista a ventun anni, il giorno dopo l'editore de "Il Globo" mi ha licenziato perchè, nonostante avessi scritto più di trecento articoli, mi ero permesso di fare l'esame sottraendomi alla mia condizione di "negro". Nonostante le promesse, la redazione non ha fatto un'ora di sciopero. La settimana successiva sono stato ricoverato per una broncopolmonite fulminante di origine sconosciuta e, dopo un mese tra la vita e la morte, sono stato salvato da un nuovo antibiotico non ancora in commercio. Grazie a questa esperienza ho scritto il mio primo racconto, s'intitolava "La sfida". Dal 1974 al 1976 ho inviato racconti e poesie a tutti i giornali d'Italia. Nessuno mi ha mai pubblicato o risposto. Nel 1976 "La Fiera Letteraria" mi ha pubblicato due poesie. L'articolo di presentazione cominciava così: "Chi lo dice che in Italia non esistono più poeti? Noi ne abbiamo scoperto uno…" Lo ricordo come uno dei giorni più emozionanti della mia vita.
Nel 1977 ho cominciato a lavorare per Radio Rai, per la quale sono sempre rimasto, in questi ventisei anni, un collaboratore esterno.
Il 24 Maggio 2003 avrò cinquant'anni. Vivo da solo e non mi dispiace. Faccio il mestiere che sognavo da bambino. Sono separato con due figli, Francesco di dieci anni e Michele di otto. Abbiamo un pastore tedesco che si chiama Sara e ci fa meravigliosi dispetti. Ho scritto questo testo di getto e non lo rileggerò, altrimenti ne ricaverei una pagina bianca, con un puntino pulsante, al centro. Delle storie amo l'antefatto e il mistero dopo la fine.




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molto rispettabile sia come dj sia come scrittore, anzi solo come scrittore visto che non è sua la voce in radio, ma i testi che scrive sono fenomenali..ricordo che ascoltavo alcatraz di nascosto durante le ore di lezione!


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