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Assolutamente capolavoro!!
Originale, profondo, significativo, artistico.
150 minuti, girati tutti sullo stesso set: niente case e cavoli vari: tutto è trasparente, tutto è disegnato solo a terra; solo l'uomo davanti alla cinepresa, messo a chiaro con tutta la sua crudeltà. 9 capitoli, che scorrono via traqnuillamente, ammaliati dall'originalità del regista nella sua scenografia. Un po' pesante per quelli che non lo capiscono, ma ottimo, in utto e per tutto: anche nella scelta dell'attrice: Nicole, la migliore del mondo.

p.s. mi avvalgo di due recensioni sicuramente migliori di quelle che potrei scrivere io...



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"Il cinema americano mastica tutto il lavoro e non lascia alcuna autonomia di pensiero allo spettatore. In Giappone, la tradizione teatrale del No lascia fare gran parte del lavoro di creazione dello spettacolo alla sensibilità dello spettatore. Il pubblico carica il ballerino No di tutti i suoi fantasmi. Bisogna tornare a questa forma di espressione artistica dove tutto non è precisato e premasticato"


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Dogville
Il cinema non c'è. Anzi, il cinema c'è, grandioso, prorompente, trascinante negli ultimi cinque minuti dei titoli di coda durante i quali scorrono le fotografie, sporche ingiallite sozze, di un America gretta, meschina, impaurita ed ipocrita. I 140 minuti che li precedono costituiscono un abnorme prologo, estenuante come una corsa in salita, che si sa che fa bene al fisico, ma quanta fatica e quanto patimento. Quanto patimento scoprire, o forse è più giusto dire ricordarsi, che la natura umana è essenzialmente ipocrita ed egoista; che sentimenti quali solidarietà, fratellanza, aiuto reciproco sono solo la facciata falsa che ricopre le case di una piccola città di provincia. Ed è forse per questo che le mura di Dogville sono trasparenti; dalle strade della piccola cittadina si può vedere, se solo si volesse guardare, quello che al loro interno accade. Ma è meglio non essere costretti ad osservare case dove alberga la menzogna e la rabbia, la rassegnazione e l'arroganza, la tacita ma ferma convinzione di bastare a sé stessi ed al mondo intero. Ed è qui, in questo sperduto paese fra le montagne rocciose, dove la strada finisce e dopo è solo strapiombo e dirupi, che da quel mondo da cui Dogville è fuggita arriva Grace (Nicole Kidman) in fuga anche lei, sperduta, atterrita, con un disperato bisogno di protezione. La comunità sembra aprirsi alla ragazza, grazie anche ai sofismi di Tom (Paul Bettany) che convince i suoi concittadini che aiutare una povera giovane in difficoltà è eticamente corretto e socialmente augurabile. Ma c'è un prezzo da pagare. Grace si dovrà offrire spontaneamente di aiutare gli abitanti nelle loro piccole faccende quotidiane. "Hai due settimane per farti accettare" le consiglia Tom, amorevolmente.
La cittadina è uno scheletro di paese. Von Trier la disegna come se avesse avuto solo degli stuzzicadenti ed un pò di gesso a sua disposizione. Il suolo è una lugubre lavagna nera dove tracciare le strade ed abbozzare i giardini. Il cielo è un telone dove un pallido sole illumina il set dove si svolge il dramma. Dentro di esso si muovono i personaggi come fossero figurine del presepe. Aprono porte inesistenti, si siedono su panchine che danno sul nulla. Eppure, pur nella forzata teatralità dell'azione, sottolineata da dialoghi letterari e forbiti, la macchina, rigorosamente a mano, del regista danese riprende un orrendo delitto dove anche se non vediamo scorrere il sangue è impossibile non sentirne l'odore acre o coglierne l'allarmante presenza. La scellerataggine dell'indifferenza e della malafede, la crudeltà della perfidia e della paura dell'altro diverso da te: un delitto che non è possibile non compiere perché non si può abdicare alla propria natura. Come lo scorpione di Welles, anche l'uomo non può fare a meno di colpire la rana che lo sta traghettando al di là del fiume, anche se questo significherà la morte del trasportato oltre che quella del trasportatore. Fine che puntualmente arriverà: più crudele del fattore che l'ha scatenata, più atroce della quotidiana sordida violenza alla quale Grace - moderna Justine - è sottoposta, "chi la prendeva, al massimo veniva colto da quel leggero imbarazzo che si può provare quando ci si approfitta di una mucca in montagna."
È la voce narrante, con uno stile da romanzo francese del '700, squisitamente letteraria, giocoso filo conduttore, che Von Trier pone a commento, criminosamente imparziale, a ciò che ci mostra con il suo personalissimo stile. Un linguaggio scarno ma ridondante di significati, una linea rinsecchita ma che germina su un humus fertile di contenuti e colmo di concetti. I temi dell'integrazione e della tolleranza, del perdono e della vendetta, della faida tra popoli confinanti, i mali che affliggono il mondo da quando l'uomo esiste su di esso. Tematiche attualissime che oggi più che mai sono ferite aperte nella nostra coscienza di cittadini ricchi di una terra ricca. E come non ambientare questa storia in America, la terra più ricca del pianeta? Sicuramente, come già avvenne con "Dancer in the dark", qualcuno criticherà il regista danese per aver parlato di un Paese, gli Stati Uniti, che non conosce. Ci sentiamo di rispondere come fece lui in quell'occasione: "anche gli americani non erano mai stati a Casablanca quando girarono "Casablanca"".

Daniele Sesti




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Dogville
Vertiginosa parabola anti-Usa dove teatro, cinema e letteratura si congiungono su di un Monopoli dall'unica regola: attenzione alla stupidità...al mondo non c'è peggior strumento di distruzione...


Un annunciato trionfo a Cannes si è trasformato in una trappola verso un pubblico imbarazzato, in effetti la vittima non è Lars von Trier che ha teso la sua personale vendetta con il linguaggio che conosce meglio, ma il pubblico stesso, quello d'oltreoceano. All'accusa mossa dalla stampa, in epoca Dancer in the Dark, di non poter parlare del continente americano non avendolo visitato, egli risponde con una trilogia anti-americana di cui Dogville è il primo, potente tassello. Mutilato di 40 minuti, il film tradisce in toto o quasi il Dogma del suo creatore, unendo finzione scenica a teatrale autorialità, non risponde a criteri ma li fabbrica sotto mentite spoglie di autoreferenzialità. Uno spazio circoscritto ma esploso, sgombro all'interno dove tutto avviene apertamente e nascostamente al contempo, un gioco narrativo, un Monopoli di vita vissuta dove ogni pedina è sacrificabile perché chi fa le regole non partecipa al gioco stesso. Al centro della vicenda una quanto mai tipica cittadina sita alla base delle Montagne Rocciose, nel Nord America, abitata da cittadini coperti nel loro bigotto modus vivendi pieno di stupide usanze, fetide giustificazioni di mille nefandezze. Nel descriverci la loro bassezza in effetti il film annoia nella sua prima parte, quando questi teatralissimi personaggi prendono via via la loro forma nel vuoto scenico. C'è però da riconoscere l'abilità innegabile di recitare in uno spazio scenico con porte, pareti e finestre fittizie, mentre una macchina da presa gira intorno agli attori, cosa che non si vede spesso sul grande schermo. La Kidman dimostra ancora di essere materia prima per un autore che ha voglia di sovvertire le regole, e in effetti dopo Kubrick lei sembra averci preso gusto alla grandezza; di Paul Bettany non possiamo tessere abbastanza lodi di quanto non lo faccia il suo curriculum di pochi ma importanti film, tra cui A Beautiful Mind, questo e Master & Commander dove lo vediamo tener grandemente testa ad un ispirato Russell Crowe.


La Via Crucis dell' Angelo. Affascinante e dissennata parabola sulla democrazia, Dogville esce dagli schemi per assalire brutalmente il modello di vita americano e per farlo si serve di uno dei suoi più riusciti prodotti, un angelo vendicatore, una diva come Nicole Kidman, vittima e carnefice di una passione che non redime ma punisce, che smaschera. All'interno di un tempo scenico che è scandito dalla sciocca collezione di alcune bambole di porcellana, lentamente si pongono i tasselli di una Via Crucis in cui l'Angelo viene osservato, studiato, invidiato e poi odiato. Incredibile l'abilità dell'autore nel comporre la via verso la distruzione (stupore -> ammirazione -> invidia -> gelosia -> odio -> distruzione -> vendetta) che è poi la rovina dell'essere umano votato all'annientamento di ciò che è superiore a lui. Nel suo film von Trier si diverte a rendere molto labile il confine tra bene e male lasciando libero lo spettatore di saltellare più volte da una parte all'altra di questa sottile linea di confine. Siamo molte volte indotti a parteggiare più per i gangster che per i perversi e arroganti cittadini di Dogville, ma del resto ci chiediamo: chi è il vero criminale, chi lo fa apertamente o chi lo fa spacciandosi per santo? Grace (la Grazia) viene offerta come un agnello sacrificale, come un dono, un potere, un anello tolkeniano di cui si può rimanere irrediti e attraverso cui si viene deviati: prima i cittadini studiano il loro dono, poi ne abusano. Il Messia in questo caso non ha una morte redentrice ma è esso stesso giustiziere, con l'arma della fiamma purificatrice rende la città una novella Sodoma e salva l'unico testimone involontario, il cane Mosé. Tante le sfaccettature pseudo-religiose dunque, ma attenti al monito del regista di voler vedere più cose di quante egli stesso non abbia voluto dire.


L'apertura interna dello spazio scenico e l'essere umano come pedina. Le origini del male. Un po' brechtiano un po' ispirato alla Shakespeare Company, un po' a La cittadella di Thornton Wilder, la Dogville di Lars von Trier (parodia già nel suo nome) non ha barriere architettoniche interne, ma non può fuggire da se stessa, è chiusa verso l'esterno, non ha scampo diremmo noi. La vita al suo interno scorre apparentemente con normalità e tutte le nefandezze che Grace è costretta a subire avvengono dietro pareti immaginarie, geniale parafrasi del termine "indifferenza": un luogo scenico dove tutti possono guardare, ma nessuno sembra vedere. Al paragone con quello che sta succedendo nel mondo vengono i brividi a pensare quanto l'arte permetta salubri e mortali metafore nelle mani di chi le sa usare con maestria. La distruzione delle bambole di porcellana è un annientamento del sé, quando l'essere umano, in particolare la madre di famiglia si trova di fronte alla sua manifesta inferiorità, alla sua meschinità unita a quella di chi le sta intorno. L'uomo come pedina del suo vivere in modo socialmente utile, si incanala entro binari che lo conducono alla disconoscenza del sé e quindi alla sua distruzione o alla distruzione dell'altro da sé. È proprio attraverso questa perdita di umanità che Lars von Trier ci guida attraverso la scaturigine del male assoluto, mostrando un po' la stessa metafora artistica utilizzata da Marco Bellocchio in Buongiorno, notte in cui l'uso dei 'putti' siciliani denotava quella perdita di umanità di cui erano soggetti gli schiavi del regime BR, ormai perduti all'interno di azioni condizionate dalla Società o dal gruppo in cui erano entrati. Senza alcuna via d'uscita, proprio come la cittadina di Dogville.



Alessio Sperati





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Qualche suggestiva immagine del film...










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l'ho visto già 3 volte...di cui 2 al cinema......mi limito nel dire che è stupendo!


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Re:

Scritto da: kurtina87 06/06/2004 19.37
l'ho visto già 3 volte...di cui 2 al cinema......mi limito nel dire che è stupendo!



[SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27823]


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io in generale non sono amante di L0ars Von Trier (Dancer in the drak, ad esempio non mi piaciuto per niente), ma devo dire che questo film mi ha impressionato per le sue trovate geniali (plot teatrale, set scarno e attori che si muovono praticamente su una pianta della città)e per la ottima prestazione della Kidman, la quale, nonostante in quel periodo si trovasse nelle pellicole più del prezzemolo, regge devvero bene il peso del suo personaggio, tutt'altro che facile da impersonare!
Aspetto impaziente i sequel!


07/06/2004 18:48
 
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Re:

Scritto da: dragoelliott 07/06/2004 12.37
io in generale non sono amante di L0ars Von Trier (Dancer in the drak, ad esempio non mi piaciuto per niente), ma devo dire che questo film mi ha impressionato per le sue trovate geniali (plot teatrale, set scarno e attori che si muovono praticamente su una pianta della città)e per la ottima prestazione della Kidman, la quale, nonostante in quel periodo si trovasse nelle pellicole più del prezzemolo, regge devvero bene il peso del suo personaggio, tutt'altro che facile da impersonare!
Aspetto impaziente i sequel!



Bè, Dancer in the dark è un film particolare, strano quanto Dogville a suo modo, ma molto bello: non può piacere a tutti un po' per il suo stile e a un certo punto anche per la sua monotonia, ma bisogna saperlo apprezzare...[SM=g27811]
Per il resto sn d'accordo cn te: la Kidman è formidabile e aspetto anch'io i sequel!


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