Il caso è quello di un'infermiera capo sala, dipendente di una struttura ospedaliera
In primo e secondo grado era stata negata la presenza di giusta causa o giustificato motivo
Cassazione: "Può essere licenziato
il dipendente che parla male dell'azienda"
La donna aveva denunciato la presenza di farmaci scaduti e strumenti non sterilizzati
Gli ermellini rilevano in questo comportamento "una negazione degli obblighi del dipendente"
ROMA - Parlare male dell'azienda per la quale si lavora, diffondendo notizie, sia pure autentiche, in grado di ledere l'immagine della struttura, può costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. Lo ha affermato una sentenza della Cassazione, con la quale è stata annullata con rinvio una sentenza della Corte d'appello di Milano che, nel 2004, aveva confermato l'illegittimità del licenziamento, pronunciata dal primo giudice, intimato ad un'infermiera professionale e capo sala, dipendente di una struttura ospedaliera.
I giudici di merito avevano ritenuto che le "espressioni offensive sulla capacità e sulla professionalità del personale" e "la divulgazione di addebiti contenuti in una lettera di contestazione relativi al ritrovamento di prodotti scaduti presso il blocco operatorio", non giustificassero il licenziamento.
Contro tale decisione aveva presentato ricorso in Cassazione la struttura ospedaliera, secondo la quale l'infermiera, diffondendo notizie riservate, aveva leso "l'estimazione di serietà di una struttura particolarmente nota e di alto prestigio".
Per la sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n.19232), il ricorso è fondato: nel caso in esame, rilevano, "una valutazione globale del comportamento è assolutamente assente" e i singoli fatti addebitati "non sono stati in alcun modo valutati nell'ambito della particolare delicatezza della funzione assegnata (infermiera professionale in un ospedale), dello specifico settore in cui il lavoro si svolgeva (blocco operatorio), della elevata responsabilità che ne conseguiva e della fiducia che esigeva".
Al contrario, "la molteplicità degli episodi, oltre ad esprimere un'intensità complessiva maggiore dei songoli fatti, delinea una persistenza che è di per sè ulteriore negazione degli obblighi del dipendente, ed una potenzialità negativa sul futuro adempimento di tali obblighi". Per questo, conclude la sentenza, il caso dovrà essere rivisto dalla Corte d'appello di Brescia.
(17 settembre 2007)
Repubblica.it